giovedì 15 settembre 2011

Schopenhauer

Chi invece arriva a insultare Hegel personalmente è Schopenhauer, innanzitutto perché era contemporaneo e scrive la sua maggiore opera “Il mondo come volontà e rappresentazione” nel 1818 quando Hegel è diventato un professore di Berlino molto famoso; tra l'altro la poca importanza attribuita all'opera di Schopenhauer contribuirà a aumentare il suo disprezzo nei confronti di Hegel.
Comunque questa introduzione ci fa capire lo scarso successo di Schopenhauer, soprattutto all'inizio della sua carriera filosofica. Questo aspetto è molto importante perché ci introduce a uno dei primi aspetti che dovremo affrontare, ovvero quello che viene definito il problema della posterità. Quindi quando la sua prima grande opera viene pubblicata nessuno se ne accorge, anche perché il suo pensiero è antitetico rispetto all'idealismo dominante, la sua opera è un'opera di rottura non solamente nei confronti dell'idealismo ma anche a quello che l'idealismo rappresentava per quello che per i caratteri dell'epoca, infatti l'idealismo è una filosofia essenzialmente positivista. Schopenhauer invece per certi versi dice il contrario. Soprattutto un'altro punto di rottura è che all'interno del monismo assoluto della concezione idealistica come vedremo Schopenhauer oppone una dottrina filosofica essenzialmente dualistica, che riprende e per certi versi radicalizza quel dualismo kantiano tra essenza e apparenza (tra ciò che appare e ciò che è).
Che Schopenhauer abbia sofferto molto di questo disinteresse dei suoi contemporanei è dimostrato dalle sue stesse parole tratte da un brano appartenente all'introduzione della seconda edizione del “mondo come volontà e rappresentazione”.
In questo testo ci accorgiamo inoltre che lo stesso Schopenhauer identifica la sua filosofia come una filosofia per la posterità e dedicata ai posteri, quindi non ai contemporanei che non possono comprenderla adeguatamente.
Lettura “Ai posteri”
Il frutto di tutto il suo sapere Schopenhauer lo dedica non ai contemporanei ma soltanto quelli che verranno, quindi un sapere che vuole sfidare il tempo che passa e le altre filosofie che da lì a poco sarebbero state superate (si riferisce alla concezione hegeliana).
A parte l'atteggiamento presuntuoso in realtà tanto distante dal vero non andò perché effettivamente quella mancanza di consensi che Schopenhauer ebbe in vita fu superata dal consenso di molti autori che lodarono e fecero proprio il suo pensiero. In particolare Nietzsche e Freud riconosceranno il loro debito nei confronti di Schopenhauer è anche la scuola di Francoforte, che ne fa il filosofo ispiratore della propria filosofia.
Che Nietzsche, almeno nella fase giovanile, sia stato profondamente influenzato dall'opera di Schopenhauer lo dimostra lui stesso in quanto gli dedica uno dei quattro testi delle “Considerazioni inattuali”, in particolare la terza considerazione si intitola “Schopenhauer come educatore”; vediamo quindi come Nietzsche lo presenta in questo testo.
Lettura “Io sono uno di quei lettori di Schopenhauer”
Nietzsche dice che leggendo Schopenhauer gli sembrava di leggere qualcosa che qualcun altro aveva scritto per lui. Tuttavia la gratitudine di Nietzsche è passeggera perché ad un certo punto criticherà Schopenhauer e se stesso quando lo aveva lodato, superando anche la sua mentalità.
Quello che è un riconoscimento molto più importante ed esplicito nei confronti di Schopenhauer arriva da un ambiente che non è filosofico. Freud scrive nel 1917 nel “Una difficoltà della psicoanalisi” queste parole.
Lettura “E’ probabile che pochissime persone”
Freud riconosce a Schopenhauer il fatto di essere stato un precursore della psicoanalisi, anzi il più grande, perché è stato il primo, anche se a un livello ancora astratto, a individuare due elementi che sono elementi fondanti della psicanalisi, ovvero l'inconscio (ovvero la scoperta che esistano delle pulsioni di cui non siamo consapevoli e che queste pulsioni abbiano un'importanza decisiva per l'individuo) e che queste pulsioni o forze inconsce che animano l'individuo un ruolo fondamentale lo hanno le brame sessuali. Solamente per questo secondo Freud Schopenhauer è meritevole di essere considerato uno dei principali anticipatori del pensiero contemporaneo, e in effetti vedremmo che, nella parte dedicata alla volontà, Schopenhauer mette in primo piano l'importanza delle pulsioni inconsce, facendone quasi l'essenza del mondo.

In realtà però durante la vita Schopenhauer divenne famoso nel 1851, ormai ultrasessantenne, quando pubblicò un'opera, intitolata Parerga e paralipomena (titolo originale: Parerga und Paralipomena), che spinse molti lettori a leggere le sue opere precedenti e in particolare “Il mondo come volontà e rappresentazione”.
Ma di questa indifferenza, come già detto, ne soffrì molto e ne diede la colpa a Hegel, tanto che quando questo era ancora in vita e insegnava a Berlino decide di mettersi in competizione con lui e mette le sue lezioni di filosofia alla stessa ora dello stesso giorno di Hegel. Naturalmente non ci va nessuno, questo aumenta a dismisura il suo disprezzo, riponendo la sua fiducia nei posteri che potranno valutare molto meglio la sua filosofia è quella di Hegel.

In questo richiamarsi alla posterità c’è anche un elemento che in qualche modo riguarda anche la filosofia stessa di Schopenhauer, ovvero il filosofo deve essere più interessato al giudizio che su di lui avrà tutta la posterità, innanzitutto perché al filosofo è preclusa la possibilità di cambiare il mondo anche qualora la sua voce sia ascoltata dagli sciocchi, per una ragione molto semplice, perché per Schopenhauer la distanza tra vita e pensiero è radicale e incommensurabile e quindi vita e verità non possono coesistere perché la verità è qualcosa di artificiale che trascende l'essenza della vita, anzi (come vedremo) che sta sopra e copre l'essenza della vita.

La filosofia di Schopenhauer quindi è una filosofia fortemente dualista in quanto separa la dimensione dell'essenza dalla dimensione dell'apparenza, come vedremo per Schopenhauer noi ci relazioniamo normalmente con il mondo oggettivo, con una realtà che è essenzialmente apparente o virtuale. Schopenhauer radicalizza una caratteristica costitutiva della realtà, ovvero quella di essere meramente apparente, perché appunto, come intitola il capolavoro di Schopenhauer, il mondo di cui faccio l'esperienza è essenzialmente una mera rappresentazione.
Lettura “Il mondo è una mera rappresentazione”
Noi in realtà non conosciamo nemmeno il sole e la terra perché noi non possiamo conoscere cosa siano in realtà, noi conosciamo solo quello che vediamo, quindi noi in realtà ci relazioniamo con il mondo in base a quello che il mondo proietta dentro di noi ma non sappiamo qual è l'essenza della cosa che ci viene proiettata. Il mondo si presenta essenzialmente nella sua realtà (epi)fenomenica come una rapporto con un soggetto, come un fenomeno che si rapporta con un soggetto che è lì pronto ad accoglierlo (si radicalizza la distinzione tra soggetto e oggetto). L'oggetto è qualcosa con il quale noi neanche entriamo in contatto perché l'unica conoscenza dell'oggetto che noi abbiamo è quella fenomenica che sempre collegata a una soggetto che la conosce.
Anche lo spazio, il tempo e la causalità (le forme attraverso le quali noi organizziamo i dati dell'esperienza) in realtà sono importanti ma sono anche secondarie rispetto questo rapporto prioritario che è determinato da un soggetto che riceve la manifestazione di un oggetto.
Tutto ciò che esiste e tutto ciò di cui in qualche modo abbiamo esperienza è essenzialmente questo: un oggetto che si rapporta ad una soggetto, quindi i confini del mio mondo sono rappresentati dai limiti delle mie esperienze perché effettivamente tutto quello che io conosco è qualcosa che viene filtrato attraverso la mia soggettività e quindi non so se effettivamente colgo quello che propriamente è il mondo in quanto tale (il mondo è sempre un mondo per il soggetto).
Non posso mai sapere se l'oggetto sia quello che vedo io, con certe caratteristiche che vedo solo io, oppure quello che vede qualcun altro, il quale vede altre caratteristiche, ma in realtà nessuna delle due rappresentazioni coglie l'oggetto.

Come vediamo ritorna il dualismo per certi versi kantiano tra fenomeno e nuomeno, anzi potremmo dire che Schopenhauer radicalizza questa distinzione tra questi due elementi ritornando su posizioni cartesiane e per certi versi barkleiane, di Barkley, che è stato il primo a dire che l'essere è essere perché percepito.
Da una parte Cartesio aveva detto che l'unica certezza sulla quale noi possiamo ricostruire il nostro edificio è il cogito, ovvero il fatto che io sono un essere pensante; Barkley aveva negato l'esistenza del mondo esterno, anzi aveva avuto l'idea di un Dio che costantemente percepisse l'esistenza del mondo, ma anche lui aveva detto che il nostro accesso al mondo è sempre mediato da immagini, ovvero rappresentazioni. Questa immagine quindi rappresentano da una parte un veicolo che mi permette di comunicare con il mondo, ma in realtà rappresenta essenzialmente un diaframma, ovvero qualcosa che mi separa dal mondo.
Tutto in quanto conosciuto come oggetto di esperienza è essenzialmente rappresentazione, in un certo senso anche il mio corpo è da questo punto di vista una rappresentazione.
Quindi conoscere è essenzialmente una questione del soggetto, come aveva detto Platone, è un'esperienza dell'anima, anzi il mondo rappresenta il costante il sogno dell'anima, un sogno di immagini che non sappiamo quanto colgano la vera essenza della realtà.
Ora se questo è vero è chiaro che se il mondo è essenzialmente una rappresentazione e quindi è una questione dell'anima è chiaro che io non ho mai una certezza del mondo esterno; ma se questo è vero ecco che è impossibile distinguere la condizione che separa la veglia dal sonno, ed ecco che, con questo espediente, che era già stato usato nel 600 con alla dissimulazione, è difficile distinguere che cos'è la realtà è che cosa il sogno.
Andiamo quindi a vedere come Schopenhauer tratti questa situazione.
Lettura “La lettura continuata si chiama vita reale”
La vita reale è la lettura continuata della realtà, quella nella quale si nota una certa razionalità, un certo ordine. Ma quando il tempo della lettura, ovvero il giorno, viene a finire e giunge il tempo del riposo, allora noi spesso seguitiamo ancora fiaccamente, senza ordine e connessione a sfogliare qua e là una pagina: spesso è una pagina già letto, spesso un'altra ancora sconosciuta ma sempre dello stesso libro. Naturalmente queste pagine sono le immagini della realtà che ritorniamo a vedere quando sogniamo, tuttavia queste immagini presentano una minore connessione con il mondo e una minore razionalità rispetto alle immagine della veglia. E’ vero anche che queste pagine che noi rileggiamo in sogno sono isolate e meno connesse, ma tuttavia è anche vero che hanno la stessa origine, infatti entrambe le pagine che leggiamo durante la veglia e durante il sonno iniziano e finiscono all'improvviso. Ora, se per giudicare si prende un punto di vista fuori entrambi, non si trova nella loro essenza alcuna distinzione precisa e si è costretti a concedere che la vita sia un lungo sogno.

Comunque questo sogno che è il mondo è un insieme di rappresentazioni però è un insieme di rappresentazioni che hanno degli elementi di irregolarità; questi elementi di regolarità sono caratterizzati dalle forme che condizionano il nostro modo di rappresentarci la realtà e sono quelle che per Kant erano le forme dell'intuizione, ovvero lo spazio e il tempo. Queste sono le forme attraverso le quali si situano le nostre rappresentazioni, infatti le nostre rappresentazioni sono caratterizzate dalla dimensione spazio temporale, sono situate in uno spazio in un tempo che posso comprendere, ma soprattutto sono ordinate da una legge che governa la successione e l'organizzazione delle rappresentazioni. Questa legge è l'unica delle categorie kantiane che Schopenhauer tiene è naturalmente la categoria della causalità, ovvero il rapporto causa-effetto. Quindi ogni nostro rappresentazione è spazializzata, è temporalizzata e si organizza secondo quella successione temporale che il nostro intelletto, quando ordina le nostre rappresentazioni, ordina attraverso la categoria della causalità, ovvero ordina le nostre rappresentazioni in modo tale che una rappresentazione venga posta come determinante, e quindi come causa, e una venga posta come determinata, ovvero come effetto.
Proprio questa struttura organizzativa che il nostro intelletto dà alle rappresentazioni in base al principio di causa ed effetto che determina:
1.       La razionalizzazione del nostro sapere
2.       l'elemento essenziale della conoscenza scientifica in quanto conoscenza razionale
Ora è chiaro che poiché la scienza si basa essenzialmente sulle rappresentazioni non potrà mai fornirci effettivamente informazioni sull'essenza della realtà perché la scienza basata sull'esperienza e sulle rappresentazioni, ma la scienza ha un'importanza fondamentale perché permette di organizzare questo mondo delle rappresentazioni in base al principio che governa tale organizzazione, ovvero il principio che Schopenhauer chiama, utilizzando esattamente le stesse parole di Leibniz, “principio di ragion sufficiente”.
Sull'importanza del principio di ragion sufficiente come principio organizzatore della nostra conoscenza e del nostro approccio conoscitivo sulla realtà Schopenhauer ne aveva già parlato nella sua tesi di laurea che si intitolava “Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente”, in quanto questo principio di ragion sufficiente attraverso il quale noi organizziamo i dati dell'esperienza assumerebbe quattro aspetti, ai quali si lega un certo tipo di necessità.
Questi quattro modi li chiama:
1.       principio di ragion sufficiente del divenire, che riguarda la causalità tra gli oggetti fenomenici naturali, in cui una cosa diviene attraverso qualcos'altro
2.       principio di ragion sufficiente del conoscere, che regola la relazione di causa ed effetto tra i giudizi, si potrebbe dire dalla verità delle premesse si conclude la verità delle conclusioni
3.       principio di ragion sufficiente dell'essere, che è quello che potremmo dire per Schopenhauer rasenta più probabilmente l'essere nella realtà, ovvero la dimensione del tempo e dello spazio, e quindi che regola le relazioni tra spazio e tempo (si potrebbe anche dire concatenazione degli enti matematici o geometrici)
4.       principio di ragion sufficiente dell'agire, che lega le azioni che compiamo alle motivazioni che ci spingono a compiere quell'azione
Ad ognuno di questi principi di ragion sufficiente si legano delle necessità, necessità che si basano sempre e comunque sulle rappresentazioni quindi su cose che sappiamo che non colgono l'essenza del reale e sono:
1.       necessità fisica (principio di ragion sufficiente del divenire)
2.       necessità logica (principio di ragion sufficiente del conoscere)
3.       necessità matematica (principio di ragion sufficiente dell'essere)
4.       necessità morale (principio di ragion sufficiente dell'agire)
Tutta questa grande connessione che rappresenta il pensiero occidentale in realtà viene creato esclusivamente per realizzare l'ordito delle rappresentazioni e ha una duplice funzione, da una parte a una funzione operativa, che ci permette di osservare basandoci sull'elemento predittivo, ma soprattutto ha essenzialmente una funzione ?tranquillizzante?  perché quest'ordito di rappresentazioni, che rappresenta la resa conoscitiva nel mondo che si basa essenzialmente sulle immagine e non sul reale, ha una funzione tranquillizzante perché rappresenta lo schermo con il quale noi ricopriamo l'essenza propria del mondo e ci fermiamo alla sua superficie che inganna le nostre capacità conoscitive e ci impedisce di guardare nel fondo della realtà, perché il fondo della realtà ha il volto della Gorgone che una volta osservato impietrisce. In questo modo il razionale rappresenta l'elemento superficiale, la razionalità, la coscienza di ciò che conosciamo e ciò che si ferma alla superficie perché in fondo e l'essenza della realtà è qualcosa che non è razionale e non riguarda questa dimensione delle rappresentazioni, ma che riguarda uno dimensione molto più profonda ed essenzialmente irrazionale.
Ecco perché per spiegare meglio in che cosa consiste questo organizzazione scientifica delle nostre rappresentazioni Schopenhauer usa una metafora che riprende da una tradizione orientale induista e che si chiama il velo di Maya. Il velo di Maya è l’insieme di queste nostre rappresentazioni, l'ordito di queste rappresentazioni che sono l'organizzazione conoscitiva e scientifica delle nostre rappresentazioni che sta a coprire l'essenza della realtà. Quindi per conoscere l'essenza della realtà bisogna rompere questo velo, anche se forse il fatto che nessuno lo faccia e la cosa che permette all'uomo di non sprofondare in questo dolore che corrisponde con l'essenza del mondo.
Lettura “Maya il velo ingannatore”
Del mondo che sta dietro le rappresentazioni di noi non sappiamo se esiste oppure no perché c'è un velo ingannatore che ci fa sbagliare su quella che è la vera realtà. Questo mondo è paragonabile a un miraggio, una allucinazione; ora letteralmente allucinazione significa rendere reale qualcosa che non era presente all'interno della realtà. Il velo quindi non è nient'altro che il principio del mondo come rappresentazione sottomesso al principio della ragione; il mondo per noi coincide con queste leggi della ragione, ovvero il principio di causa ed effetto, che hanno istituito questo mondo, ovvero l'hanno organizzato dal punto di vista conoscitivo; ma in realtà l'istituzione, ciò che istituisce il mondo, per Schopenhauer non può che essere differente rispetto questa razionalità con la quale noi organizziamo i dati della nostra esperienza e quindi non può che essere qualcosa di irrazionale, anzi Schopenhauer dirà che è un atto arbitrario perché è frutto di un agire inconsapevole e irrazionale che Schopenhauer identifica con il termine di volontà. La volontà assoluta che, poiché si pone prioritariamente in quanto istituzione rispetto alla ragione, è qualcosa di totalmente differente e si pone prioritariamente perché è ciò da cui tutto si origina; quindi ciò che è istituito viene prima di ogni cosa chiaramente rappresenta l'essenza di ogni cosa, quello Kant chiamava noumeno.
Qui c’è una grande differenza tra Schopenhauer e Kant, infatti mentre per Kant noi non avevamo mai accesso a questo mondo per Schopenhauer invece noi possiamo accedere anzi costitutivamente accendiamo a questa realtà essenziale perché noi non siamo nient'altro che la manifestazione più portentosa di questa volontà assoluta che agisce nel mondo.

Il fondamento quindi è qualcosa di irrazionale, ora per poter cogliere questa essenza bisogna strappare quel velo di Maya che ricopre la verità, il velo di Maya, che rappresenta la nostra conoscenza di tipo scientifico e rappresenta ciò che ci impedisce di gettare lo sguardo su quello che è il vero volto dell’essenza di ogni cosa (che lui chiama il volto della Gorgone).
Il medio che ci permette di accedere al mondo della volontà e che quindi ci permette di strappare il velo di Maya è il corpo, attraverso il quale noi scopriamo che la forza che ci domina (che poi domina tutto il mondo naturale) è essenzialmente una forza irrazionale, quella che poi chiamerà volontà.
Lettura “L’accesso alla volontà”
Schopenhauer ci spiega come si può accedere alla volontà e quindi fare esperienza dell'essenza e del noumeno attraverso il nostro corpo.
Come già detto noi non possiamo cogliere l'essenza della realtà perché noi conosciamo solamente l'immagine, se noi fossimo soltanto soggetti conoscenti e quindi fossimo solo conoscenza (se come dice fossimo solamente una testa alata d’angelo senza corpo) noi non potremo mai cogliere questo senso perché la conoscenza di tipo intellettivo e razionale manca sempre questa essenza, come vedremo noi non siamo solo questo, infatti siamo anche corpo.
Ma, come sappiamo, prima della struttura che organizza le nostre sensazioni c'è una soggetto che sente e che sta nel mondo e si sente attraversato da tutta una serie di pulsioni ed emozioni dalle quali poi si origina la nostra conoscenza di tipo rappresentativo. Anche il nostro corpo è uguale a tutti gli altri oggetti che ci circondano e si riduce a una mera rappresentazione, ciò che fa sì che il corpo non sia una solo una mera rappresentazione è il fatto che ci stiamo dentro, ovvero qualcosa con il quale ci relazioniamo costantemente. Il corpo infatti non è solamente qualcosa che conosce ma è anche qualcosa che vuole, ovvero siamo caratterizzati da bisogni, da necessità e dal volere soddisfare questo tipo di bisogni, quindi noi siamo innanzitutto volontà.
Il corpo è qualcosa che sentiamo come immediato e quindi connesso ad esso il fatto di essere volontà.
L'atto di volontà e l'azione attraverso la quale noi esplichiamo questo atto di volontà, che è un'azione corporea, non sono qualcosa di distinto, non si rapporta in base alla relazione causa ed effetto, ma è un rapporto di immediatezza, ogni volere è qualcosa che ci spinge ad agire è anche già direttamente azione (esempio non c’è il voler prendere il cellulare e poi il prendere il cellulare perché il voler prendere il cellulare si esplica necessariamente attraverso un gesto corporeo) perché queste pulsioni della volontà in realtà sono dominanti sull'individuo. In questo senso il dolore è qualcosa che ci capita che noi non vogliamo, così come il piacere rappresenta l'esatto contrario, ovvero qualcosa che avviene e che corrisponde con ciò che vogliamo.
Questa scoperta che noi siamo un corpo che sente e sopratutto siamo volontà ci fa capire che questo elemento in realtà non è qualcosa che riguarda solamente noi come soggetto ma che è qualcosa di inserito profondamente nella natura e che domina tutto il mondo naturale.

Ma innanzitutto che cos'è questa volontà? La volontà e pulsione, anzi Schopenhauer usa un termine, che userà anche Freud per indicare le pulsioni del nostro inconscio, quello di “cieca pulsione”, dove per cieca ci sta proprio quello che intendeva Kant, e quindi una pulsione non razionalizzata e non consapevole. Proprio perché è cieca questa pulsione può essere confermata non in modo argomentativo e razionale ma il modo essenzialmente intuitivo, che vuol dire immediato, anzi un sentimento immediato.
L'intuizione della volontà, ovvero del fatto che ci sia qualcosa di più forte e di prioritario che ci domina a dispetto alla ragione, rappresenta quello strappo del velo di Maya che ci introduce nella realtà, perché il velo rappresenta un modo di nascondersi dell'essenza del reale.

Ma cosa vuole la volontà? Innanzitutto questa è origine del movimento di ogni cosa, quindi la potremo definire anche come principio vitale e quindi principio di vita (che Schopenhauer chiamava con il termine greco phisis, che significa vita); quindi la volontà è volontà di vita. Perciò la natura non è qualcosa dominata dal senso dell'essere ma è qualcosa che è dominato dall'insensatezza del divenire, da qualcosa che diviene sempre perché non può che volere sempre quello che propriamente è, ovvero vuole nuova vita o essere vita ulteriore. Questa volontà di vita, che rappresenta la legge che domina ogni cosa, che comunque è anche dinamicità, in realtà non riguarda solamente la natura nel suo complesso ma riguarda ogni essere particolare. La forza che domina ogni essere naturale e quella di volere vita, quella che oggi definiremo legge di autoconservazione.
In questo c'è anche una critica di Schopenhauer alla metafisica classica ovvero quella di aver completamente sbagliato, di aver voluto immobilizzare la natura nella metafisica che guardava come origine di ogni cosa l'essere. In realtà non è così perché l'essere è un derivato ed equivale quindi ad affermare qualcosa che non si ferma mai, appunto quella che Schopenhauer chiama volontà.
Ora è chiaro che questo ci fa capire perché la volontà sia essenzialmente conflitto (riprende la tradizione di Eraclito sia nel divenire che nel conflitto), perché proprio il contrasto e il conflitto è la legge che domina ogni cosa. Ma a differenza di Eraclito per Schopenhauer il conflitto non è armonia ma è quello che essenzialmente il conflitto è (disarmonia), ma sicuramente anche lui concorda per il fatto che tutto è dominato dal conflitto e dall’irrazionalità e quindi ciò che rappresenta il principio di ogni cosa è essenzialmente disarmonia e irrazionalità.
Lettura “La volontà come lotta”
La volontà, come abbiamo detto, si traduce in tutti gli ambiti e in tutti i fenomeni quindi il tutto aspira all'esistenza di se stesso, ma allo stesso tempo tutto contende ad ogni altra cosa la vita e quindi la materia, ma in questo volere la propria vita non può fermarsi a guardare le esigenze degli altri infatti e qualora lui lo facesse gli altri li strapperebbero materia e quindi vita.
Questa lotta però non rappresenta una momento degenerato della natura ma è una lotta attraverso la quale la natura sussiste e qualora non ci fosse questa lotta non sussisterebbe neanche la natura, gli erbivori si mangiano l'erba, i carnivori si mangiano gli erbivori e l'uomo si mangia tutti (in questo c'è un elemento della posterità, ovvero l'individuazione di una autocelebrazione dell'uomo di origine rinascimentale come della giustificazione del dominio dell'uomo su ogni cosa presente nella natura) anche se poi homo hominis lupus, ovvero gli uomini si mangiano a vicenda togliendosi reciprocamente vita (ricorda Hobbes).

Ora data questa situazione che è costitutiva di ogni ambito è chiaro che l'essenza dell'esistenza della vita è caratterizzata dal dolore e dalla sofferenza, ovvero la rappresentazione con la quale noi organizziamo scientificamente il nostro stare nel mondo rappresenta una maschera in cui razionalmente la volontà si nasconde cercando di conservare se stessa offrendo sempre nuove e buone ragioni per vivere; ma inoltre nasconde quello che per Schopenhauer è l'elemento essenziale della situazione di ogni realtà ovvero il tragico e il non senso che domina ogni cosa.
Lettura “La realtà del dolore”
Innanzitutto il nostro modo di relazionarci con le nostre emozioni ci fa capire che il dolore è qualcosa di determinato perché noi sentiamo il dolore per esempio di una bruciatura ma non sentiamo prima la non bruciatura, noi sentiamo invece il bisogno, che è mancanza e quindi sofferenza (la sete, la fame eccetera), ma una volta che abbiamo soddisfatto questi bisogni non sentiamo l'appagamento perché non facciamo altro che sentire un altro desiderio e quindi una nuova mancanza e una nuova sofferenza. Solo il dolore e la sofferenza si possono affermare e accertare mentre il piacere è sempre negativo perché rappresenta la mancanza di dolore. Queste sofferenze non ci fanno quindi capire l'importanza della vita, della quale ci accorgiamo soltanto solo quando stiamo per morire.
Tra l'altro più cose possediamo più aumenta la paura di poterle perdere e quindi anche quando godiamo di qualcosa abbiamo sempre paura di perderlo.
Quindi se è vero che l'esistenza è positiva solo nel momento in cui non c'è accorgiamo che esiste, perché noi ci accorgiamo che esiste nel momento in cui proviamo dolore o quando avvertiamo bisogni, allora se il miglior stato dell'esistenza è quello in cui noi non avvertiamo di esistere nella migliore in assoluto sarà quello in cui noi non esistiamo (e quindi la morte e il suicidio) perché in quel momento saremo immuni dalla possibilità di provare dolore. Questo infatti non è, come diceva Leibniz, il migliore dei mondi possibili.

In realtà, a dimostrazione di come per Schopenhauer la nostra vita sia caratterizzata dalla sofferenza e dal dolore sta anche nel fatto che noi l'unica cosa che proviamo è la sofferenza, quindi quello che noi chiamiamo come piacere si pone come un assenza di dolore e proprio tutta la nostra struttura conoscitiva riconferma costantemente questo fatto, ovvero in quanto il non soffrire neanche lo sperimentiamo.
È talmente convinto di questo predominio del dolore che, citando Leibniz, dice che questo sicuramente non è il migliore dei mondi possibili, anzi è il peggiore e se anche fosse una atomo peggio non protrarre neanche sussistere visto il livello di sofferenza oppure, dice sempre Schopenhauer, “è vero che non esiste una rosa senza spine ma è altrettanto vero che esistono un sacco di spine senza le rose”.
Ecco perché dal punto di vista dell'individuo, che è consapevole di ciò, la vita non è nient'altro che un perenne oscillare dal dolore alla noia, il dolore che rappresenta la necessità di soddisfare bisogni e la conseguente mancanza che si origina da questo bisogno e la noia, che subentra nel momento stesso in cui questa volontà di vita ci spinge a cercare più vita e trova un'apparente appagamento in qualcosa, di cui si annoia subito per passare a un'altra soddisfazione, perché la volontà non cessa mai di esprimere se stessa.
L'uomo avverte la sua vita, dice Schopenhauer, come una costante battaglia per la vita essendo la sua essenza volontà di vita, con un ulteriore elemento di sofferenza, infatti questa lotta per la vita in una realtà non serve a niente perché al termine di questa lotta c'è sempre la morte tanto che la vita non è nient'altro che morte trattenuta.
Lettura “La vita è continuo morire”
La vita dell’uomo, come già detto, è una continua battaglia per la vita con una certezza in più perché questa è una battaglia nella quale siamo certi di essere sconfitti infatti vivere non è nient'altro che muoversi in direzione della morte, così come il nostro camminare (o la nostra posizione eretta) è una costante lotta per non cadere così la vita è una costante lotta contro la morte (anche un respiro o un pasto sono modi per allontanare la morte anche se questa si avvicina perennemente). Spinti dalla nostra volontà di vita continuammo a respingere la morte anche se siamo sicuri che un giorno ci raggiungerà perché questa è l'unica certezza è che noi abbiamo (secondo uno studioso queste parole anticipano un tema tipico dell'esistenzialismo ovvero quello dell'uomo come essere per la morte).
Sembra quindi una situazione disperata perché non possiamo sottrarci dalle sofferenze e l'esito di tutta questa sofferenza è la morte, l'esatto contrario di quello per cui soffriamo; a questo punto sarebbe quasi logico uscire dalla vita, ma in realtà il suicidio non è una risposta perché uscire da questa dimensione significa sottrarci alla volontà di vita che ci domina mentre il suicidio rappresenta la forma suprema di questa volontà di vita (il suicidio per certi versi rappresenta il dominio della volontà di vita), infatti chi si uccide non si uccide perché sceglie questo gesto come rifiuto della vita ma si uccide perché soffre e ritiene di avere poca vita e ne vorrebbe una vita migliore; in questo modo il suo suicidio rappresenta una denuncia di questa mancato di vita che fa e quindi il suicidio è l'assoluto dominio della volontà.

Ma in realtà anche Schopenhauer individua delle vie di liberazione alternative a questa, di sicuro non il comportamento morale perché il nostro agire sempre determinato dalla volontà e quindi noi non siamo liberi di agire ma siamo sempre determinati. Quindi cerca di individuare queste vie di liberazione in qualcos’altro e ne trova tre.
Di queste tre vie però in realtà due falliscono e solamente una, che si richiama una tradizione orientale, è quella che può permetterci di uscire da questa dimensione di sofferenza.
Le tre vie di liberazione sono:
1.       dell’amore e della compassione
2.       l’arte
3.       dell’ascesi e della rinuncia della volontà (vivere in direzione della mancanza di desideri)
La prima via della compassione dice che l’unico modo per resistere al dolore, come diceva Leopardi nella Ginestra, e che il genere umano si allei in questo comune sentire di appartenere una specie destinata la sofferenza. Questa unione può essere fatta soltanto quando noi ci accorgiamo che tutti gli enti viventi soffrono in modo comune, infatti compassione significa letteralmente patire comune.
Ma questo patire comune sembrerebbe esprimere una sorta di giustizia perché tutto sommato è l'unica cosa nella quale siamo tutti uguali.
Ma in realtà anche nell'amore e nella simpatia la volontà dimostra la sua genialità, ovvero il fatto di affermare comunque sempre se stessa, perché sebbene l'amore sembra in qualche modo esprimere una volontà di agire lungo una traiettoria non segnata dall'aggressività e dalla volontà di affermazione di se stessi in realtà l'amore è una strategia che la volontà attua per perpetuare se stesso, perché ogni amore (che si traduce dalla compassione) ha alla propria fine il sesso, che non è nient’altro che la volontà riproduttiva e riprodurre significa dare nuova vita. Attraverso il sesso la volontà esprime la sua possibilità di perpetuarsi.
Lettura “Amore e sesso”
L’istinto sessuale è quello che più di tutti domina il nostro comportarci e il nostro agire, tanto che Schopenhauer sembra affermare quello che dirà un filosofo moderno, ovvero che l’evoluzione non è nient’altro che l’affermarsi di un gene egoista che pensa solo a se stesso e tutti gli atti dell’uomo sarebbero determinati da questa esigenza di questi geni che vogliono affermare se stessi.
Schopenhauer dice praticamente la stessa cosa, ovvero che ogni nostro comportamento è determinato da questo dominio della dimensione riproduttiva. Inoltre l’esito deludente di ogni atto sessuale dimostra il dominio della volontà che si caratterizza secondo il segno della soddisfacimento e della noia.
Ecco che la via dell'amore fallisce perché all’apice dell’amore di coppia ci sta il sesso che è riproduzione della volontà di vita.

Bisogna quindi vedere se funziona la via dell'arte, la quale viene definita “sguardo disinteressato al possesso della cosa” come aveva già detto Kant, ovvero l'esperienza del bello è qualcosa che può attuarsi nella misura in cui non esiste alcun interesse diretto nei confronti della cosa.
L'arte è un modo diverso di guardare la realtà, che non è il modo conoscitivo perché è un modo di apprendimento e quindi caratterizzato anch'esso dalla appetizione e dal dominio della volontà, l’arte invece non vede il fenomeno, non vede ciò che il fenomeno esprime ma vede ciò che sta dietro, ovvero quel bello a cui il fenomeno si ispira.
Qui entra in gioco quello che viene definito Schopenhauer platonico, ovvero quella Schopenhauer che ritiene che esista una sorta di diaframma intermedio tra il mondo dei fenomeni e il mondo della volontà, ovvero poiché non esiste alcun punto di contatto tra la volontà e i fenomeni, la volontà utilizza qualcos'altro per creare la realtà, ovvero le idee, che sono le forme da cui poi sorgono i fenomeni.
L’arte è differente dalla scienza e dalla conoscenza, che sono sempre dominate per Schopenhauer dalla volontà di vita, proprio dal fatto che l'esperienza artistica sottrae l'oggetto dal dominio della scienza perché fa vedere l'oggetto con il fenomeno in un modo diverso, ovvero fa vedere l'idea che sta dietro l'oggetto, che rimane sempre identica a se stessa. Quindi l'arte sembrerebbe sottrarsi al dominio della volontà ma anche quindi c'è un problema, ovvero che l'arte, come aveva detto Kant, è prodotto del genio (quella facoltà che permette di vedere oltre il fenomeno l'idea).
Lettura “L’arte come liberazione”
La vita quindi è dominata dalla volontà e da questo costante tentativo di cercare la pienezza e un appagamento che sempre ci sfugge, quindi un agire privo di senso (come quello delle tre figure mitologiche a cui Schopenhauer fa riferimento). Quando invece riusciamo a rapportarsi con la realtà prescindendo la dimensione del volere, ovvero vedendo nella realtà che ci presenta non ciò che ci appare ma ciò che permane, ovvero vede, allora riusciamo in quel momento e ad ottenere quell'appagamento che il volere non ci dava mai. L'arte è essenzialmente questo, un rapporto con l'oggetto privo di alcun interesse in modo oggettivo, attraverso il quale noi otteniamo l’aponia, ovvero l’assenza di dolore (come diceva epicuro).
Il limite sta nel fatto che noi non siamo artisti e neanche l'artista è sempre geniale, tantomeno il fruitore non può mantenere una costante relazione con la realtà di tipo estetico perché dobbiamo mangiare e dobbiamo bere eccetera; perciò anche gli artisti sono richiamati alla vita. Ecco che quindi anche l'arte non è una liberazione compiuta perché tutto è più può essere una parentesi rispetto alla sofferenza di una vita ma non una vera e propria liberazione (ma ricadiamo nella dinamica della ruota di Issione che sempre ritorna e tutto stritola).

A questo punto la libertà potrà consistere solamente nella sottrazione completa dalla volontà, ovvero non volere più; ecco perché è definita a ascesi o nonuntas (esatto contrario della volontà). La liberazione consiste nel non da desiderare o volere più, nel vivere in sé e in direzione del nulla (di tipo religioso), tipico di molte tradizioni filosofiche orientali come il buddismo.
Lettura “Il nulla e l’ascesi”
Dove Schopenhauer spiega in che cosa consiste questa via di liberazione, l'unica via di liberazione che non può che avere una risposta negativa, in quanto per Schopenhauer l'uomo deve negare la vita. Anche se è impossibile da realizzarsi.
Schopenhauer indica l'unica vera via di liberazione con il termine nonuntas, ovvero non volere, ma ogni ente, essendo espressione della volontà, è un ente nei confronti dei quali tendiamo e quindi possiamo desiderare. Muoversi in direzione della nonuntas significa la scomparsa del mondo e di qualsiasi ente, quindi non dobbiamo volere alcun che e per certi versi il nulla; solo che volere e il nulla non significa volere il niente come assenza di ogni cosa, ma vuol dire volere il niente come possibilità di un'altra dimensione (coincidere con un nulla religioso), un nulla che assomiglia al nirvana anche se non è propriamente come questo perché fa riferimento alla tradizione occidentale.
Ciò che non funziona in questa via di liberazione è che noi possiamo accedere alla volontà solo attraverso il corpo, attraverso il quale sentiamo passare i desideri e le pulsioni; ora per quanto uno possa vivere in un modo ascetico non può mai uscire dal proprio corpo. Ecco perché la ascesi, questo dire di no alla vita, è assolutamente un atteggiamento pessimistico che non può funzionare, cosa che riconosce Nietzsche.

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