giovedì 8 settembre 2011

Kant

Indiscutibilmente la filosofia contemporanea ha da sempre fatto i conti con il pensiero di Kant ed Hegel, che saranno le due figure di riferimento perché rivoluzioneranno il modo di pensare e di comprendere cosa l’uomo possa realmente capire del mondo nel quale si trova, in modo tale che tutto si modificherà. La fine del 700 e l’inizio dell’800 è il periodo in cui quelle scienze che rappresentano il sapere nel mondo contemporaneo (dalla fisica alla chimica) subiscono una trasformazione radicale e si afferma appunto con un sapere che si allontana sempre di più dalla filosofia, diventando sempre più settoriale, ma che non può che condizionare lo statuto stesso della filosofia in quanto la filosofia, che è ancora con i grandi razionalisti del 700 (Cartesio, Spinoza, Leibniz) un intento sistematico (ovvero con intento ulistico, parola che deriva dal greco olon che significa tutto), nel senso che ha ancora la presunzione di dare una spiegazione a tutto quello che si può conoscere.
Con la rivoluzione scientifica e l’esplosione di alcuni saperi particolari e settoriali questa funzione della filosofia viene meno e vedremo che Kant da una parte sarà quello che riconoscerà questo, ma allo stesso tempo si interroga su che cosa effettivamente possiamo conoscere e quale debba essere la funzione che debba avere da questo momento la filosofia, che poi sarà una funzione essenzialmente critica come avrebbe detto Locke, ovvero l’inventore del criticismo, il quale diceva che tutto quello che possiamo conoscere ci deriva dai sensi; questa posizione venne poi ulteriormente radicalizzata da Hume, il quale dice che le esperienze sono sempre soggettive e molteplici perché ci derivano dai sensi e se tutto si basa sulle esperienze come faccio a sapere che quello di cui faccio esperienza corrisponde esattamente alla realtà, questo mi impedisce di arrivare a un sapere universale, che è poi lo scopo del sapere scientifico.
E questa è la situazione in cui si trova Kant, anzi si trova in una situazione ancora più radicalizzata da Hume che disse che anche la legge di causa ed effetto non può essere considerata necessaria perché è anche quella figlia dell’esperienza. Come vedremo Kant cercherà proprio di dare una risposta a questo problema, tenendo conto da una parte di quello che era stato detto dagli empiristi inglesi a proposito dell’origine sensibile della nostra conoscenza e dall’altra cercando comunque di affidare alla filosofia il compito di trovare delle scienze che possano sottrarsi a questo necessario riferimento alle esperienze e quindi possano essere oggettive e universali. Questo è il compito della filosofia, quello di stabilire se è possibile identificare all’interno della struttura umana una facoltà che ci permetta di conoscere la realtà in modo oggettivo.

Ora naturalmente anche Kant ha una sua formazione e sarebbe poco credibile pensare che la formazione kantiana sia una formazione che si basi sullo studio degli empiristi inglesi, infatti appartiene a una cultura differente, non è neanche inglese ma prussiano, nasce Königsberg nel 1724, che era al tempo un grande centro universitario. Al tempo di Kant inoltre la cultura era influenzata da due grandi tradizioni culturali ma anche da due novità dal punto di vista culturale; i primi due sono dal punto di vista religioso l’ortodossia luterana, mentre dal punto di vista filosofico l’aristotelismo sincretista che ancora dominava le scuole. All’interno di questa tradizione si inseriscono sia dal punto di vista religioso sia dal punto di vista filosofico due grandi movimenti che si muovono in direzione contraria: da una parte si afferma sempre di più il movimento pietista protestante (il quale richiama a una fedeltà nei confronti dell’originario spirito luterano e quindi antirazionalista, che vede nell’utilizzo della ragione un pericolo che può inquinare l’autentica fede luterana), dall’altra parte si afferma l’illuminismo (che a partire da Leibniz s’interrogherà sulla possibilità di fondare razionalmente i diversi ambiti intorno ai quali può esercitare la conoscenza umana; l’illuminismo tedesco è però meno attento agli aspetti politici e sociali ma come l’illuminismo francese fonda la propria fiducia nei lumi della ragione).
Pensatore fondamentale e centrale nella formazione kantiana e massimo esponente dell’illuminismo tedesco è Wolff, quindi bisogna dire qualcosa su questo autore perché ci farà capire come quando Kant, a partire dalla seconda metà del 700, entrerà in contato con il pensiero degli illuministi inglesi queste due grandi tradizioni di pensiero si porranno all’origine di quello che sarà poi il suo intento all’interno del pensiero critico e delle tre critiche che Kant scriverà: la Critica della ragion pura, la Critica della ragion pratica e la Critica del giudizio.
Wolff scrive un testo intitolato “Pensieri razionali” nel quale dice che il compito del filosofo è quello di cercare di fondare il sapere in ogni ambito della conoscenza partendo e utilizzando solo strumenti razionali. Ora Wolff, che appartiene anche alla tradizione classica precedente, ritiene che la ragione può essere agita non solo in ambito fisico e naturale ma anche in ambito metafisico, ovvero anche le verità metafisiche possono essere in qualche modo fondate unicamente attraverso l'uso della ragione, è chiaro come questo pensiero entri in contrasto con questo nuovo spirito religioso che inizia ad affermarsi e va anche ad influenzare le università che è il pietismo, questa tanto vero che Wolff viene addirittura cacciato dall'università di Halle nella quale insegnava nel 1723.
Wolff riteneva che il modello della filosofia deve diventare quel sapere che con Leibniz aveva conosciuto i maggiori progressi, e che in qualche modo aveva una struttura formale che si poteva presentare come coerente, ovvero la matematica, in quanto è l'unico sapere che in base ai suoi presupposti e secondo un sistema deduttivo partendo da determinate assiomi riesce a dedurre tutta una serie di verità unicamente basandosi sui propri strumenti. Ecco perché dice Wolff la filosofia dev'essere essenzialmente di tipo fondativo, perché come la matematica sa fondare il proprio sapere; Wolff però ritiene (e in questo è un perfetto figlio del razionalismo settecentesco) ancora che la filosofia debba essere anche un sapere sistematico, ovvero un sistema di sapere che possa e debba dare risposte in ogni ambito e quindi in ogni scienza.
Wolff divide quindi le scienze in due categorie, quelle teoriche e quelle pratiche e naturalmente ritiene che le scienze più importanti siano quelle teoriche, queste ultime si dividono in due tipi, ovvero metafisica ontologica (che studia le strutture dell'essere) e metafisica naturale (che studia le strutture della realtà fenomenica). Ora se queste sono le scienze più importanti è chiaro che Wolff ritiene, a differenza degli empiristi inglesi, che possa esistere una scienza metafisica, ovvero una scienza dell'essere in generale, di tensione alla generalità, che secondo Wolff deve essere applicata in tutti i campi. Poiché questo deve essere fatto in modo razionale si capisce come e perché in alcuni testi Wolff estrema l'intento di fondare razionalmente la conoscenza del corpo, dell'anima e di Dio, ovvero il principio che governa la realtà naturale, il principio che governa l'individuo uomo ed infine il principio che governa ogni cosa.
Tutto questo in modo razionale, il che vuol dire che la scienza metafisica deve basarsi unicamente su strumenti che le derivano dalle proprie idee e invece non basarsi su elementi che facciano riferimento a cose irrazionali (come i miracoli); questo diventa l'elemento fondamentale della sua “cosmologia rationalis”, anche della “psicologia rationalis” (disciplina che studia la struttura dell'anima in modo razionale) ed infine nella “teologia rationalis” (dove cercherà di dimostrare in modo razionale l'esistenza di Dio, come aveva fatto San Tommaso d'Aquino). In pratica per Wolff è possibile dimostrare e giustificare in modo razionale le caratteristiche e la struttura dell'essere, dell'anima e di Dio.
Questo è molto importante perché Kant dedicherà una parte delle sue opere a questo argomento.

Quando Kant entra all'università il suo maestro era un filosofo di nome Martin Klunzen che come vedremo avrà un'importanza fondamentale per Kant perché come vedremo cercherà di privilegiare studi di natura scientifica, cercando di risolvere le aporie all'interno della pensiero di Leibniz. Ad esempio una delle aporie più problematiche era quella dell'armonia prestabilita, quest'ultima nasceva per giustificare come fosse possibile che le monadi interagissero tra di loro, ma il dubbio rimaneva sul fatto che queste interagissero a distanza l'una sull'altra e questo era appunto il problema. Klunzen dimostra come in realtà non bisogna ricorrere all'armonia prestabilita, ad esempio ci sono alcune scienze che dimostrano che i corpi mettono in gioco forze che agiscono a distanza le una tra le altre, come il magnetismo.
Da ciò si capisce perché Kant, almeno sino all'inizio degli anni 60, privilegi degli interessi di tipo scientifico o quantomeno che si occupi di questioni scientifiche e non filosofiche. Due titoli in particolare si pongono su questa linea di un interesse scientifico, il primo è “I pensieri sulla vera valutazione delle forze vive” (che ricorda le monadi) mentre il secondo è il suo primo capolavoro e si intitola “Storia universale della natura e teoria del cielo”
Parentesi che non c'entra niente: perché per Leibniz è importante concepire la forza come basata sul principio massa per velocità al quadrato (m=v2)? Perché questo rapporto dimostra che data una forza non corrisponde esattamente a parametri quantitativi, in quanto vuol dire che la massa moltiplicata se stessa e indipendentemente da un criterio corporeo, perciò è una vis activa e quindi viva.
Ma il vero e proprio capolavoro di Kant in questo periodo è la “Storia universale della natura e teoria del cielo”, che essenzialmente si occupa di fornire una sorta di cosmologia che cerchi di una qualche modo anche di giustificare l'origine dell'universo.
Questa concezione di Kant è così profonda che sarà fatta propria da un fisico astronomo di nome LaPlase, tanto che questa teoria dei cieli sarà nota come teoria kantiana-laplassiana.
Kant divide la storia universale della natura e teoria del cielo in tre parti:
1.       La prima parte riguarda la nascita e lo strutturarsi del cosmo
2.       La seconda si occupa delle caratteristiche e la struttura che assumono di sistemi celesti in base ad dei principi
3.       mentre la terza parte si occupa della struttura ontologica che caratterizzerebbe, secondo Kant, gli ipotetici abitanti dei vari pianeti del sistema solare
Secondo Kant il cosmo nasce attraverso un passaggio da un caos originario a una situazione di ordine naturale, situazione che si viene a creare in base ad alcune leggi imposte da Dio alla materia, che fanno sì che la materia a partire da quel momento incominci a muoversi in base a quelle leggi. Le leggi imposte da Dio sono quindi leggi necessarie, ovvero che non possono essere trasgredito (tra l'altro questa concezione di Dio che dà un colpetto all'inizio per mettere in moto tutto assomiglia tantissimo a quella di Cartesio).
Naturalmente questo movimento che viene impresso da Dio mette in movimento masse di materia sempre maggiori e questo movimento, prendendo come modello il sistema newtoniano, attraverso le attrazioni che le particelle di materia agiscono le une sulle altre. La differenza che pone Kant è che queste particelle non hanno solo un movimento attrattivo ma anche una movimento repulsivo; questo determina un movimento vorticoso della materia che fa disporre le particelle secondo un principio, ovvero quello che le particelle di materia più densa e più pesante siano quelle che si dispongono più vicino al centro (intendendo per centro il sole), mentre le molecole più leggere si dispongono alla periferia (questa teoria ricorda molto quella dei presocratici). Quindi ecco che secondo questa teoria anche vari sistemi che compongono il sistema solare si dispongono secondo questo principio dal più denso al meno denso e quindi dal più materiale al meno materiale. Tuttavia più materiale significa meno spirituale mentre più spirituale significa meno materiale, ora se questo è vero anche gli abitanti avranno le stesse caratteristiche, quindi quelli che abitano i pianeti più corporei e pesanti saranno meno razionali seguendo di più le passioni, mentre quelli che si trovano alla periferia non hanno bisogni di natura corporea e quindi saranno essenzialmente razionali.
In base a questo se ciò è vero Kant può affermare che la terra e l'unico posto nel quale ci può essere vita morale, perché mentre i più materiali agiscono secondo i propri istinti e secondo le proprie passioni e i più spirituali agiscono seguendo solo la ragione; i terrestri possono avere vita morale, infatti la morale è la capacità di saper contenere le proprie passioni grazie leggi razionali che governano il nostro agire.
Quest'opera viene iscritta nel 1756 e da questo momento della pensiero di Kant si modifica, infatti in questo periodo entra in contatto con il pensiero degli empiristi inglesi che lo sveglierà dalle sue certezze dogmatiche, che aveva ereditato dall'Illuminismo, ovvero gli empiristi inglesi e soprattutto Hume spingeranno Kant a privilegiare altre questioni e a capire che da adesso il compito del filosofo è quello di dare delle risposte a questo problema che metteva in dubbio la possibilità di un sapere scientifico.
Ecco che quindi potremo dire che a partire da questo momento i suoi interessi diventano più di carattere filosofico e metafisico, un interesse metafisico che però rivela diverso da quello dei suoi predecessori.

In realtà le opere che Kant scrive negli anni 60 saranno quelle che introducono ad alcuni aspetti che saranno centrali nella sua fase critica.
Ed esempio nel 1764 Kant si occupa di un altro ambito relativo al bello e alla nostra possibilità di fare esperienza del bello, infatti scrive un'opera nella quale utilizza due categorie che poi vedremo saranno riprese nella critica di Kant. L'opera si intitola “Osservazioni sui sentimenti del bello e del sublime”, nella quale Kant dimostrerà che il bello e il sublime, che sono entrambi due sentimenti di gusto, hanno però caratteristiche diverse: ovvero il bello è caratterizzato da un piacere immediato mentre il sublime è una sentimento di natura più profonda che non riguarda solo l'ambito estetico ma anche l'ambito morale.
Ma l'opera nella quale si vedono per la prima volta comparire problemi che poi saranno centrali nel suo capolavoro, ovvero la “Critica alla ragion pura”, è l'opera intitolata “Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica”, che nasce dietro sollecitazione di alcuni amici di Kant ad affrontare il problema creato da alcuni scritti di una sensitivo il quale dimostrava come lui fosse in grado di parlare con le anime dei defunti e quindi fosse in grado di dimostrare l'esistenza di una sostanza immateriale. Allora Kant parte cercando di affrontare la questione in base a tre domande:
1.       E’ sempre possibile parlare di sostanze immateriali?
2.       Non capisco cosa dice
3.       Esiste un mondo immateriale?
Kant quindi risolve il problema in questo modo: ogni sostanza è un tode-ti (come diceva Aristotele), ovvero una qualcosa di determinato, quindi ogni sostanza necessariamente occupa uno spazio, ora poiché non è possibile occupare uno spazio senza riempirlo è impossibile concepire delle sostanze che devono avere un luogo, senza che questo luogo occupi spazio; questo almeno per quello che riguarda la nostra esperienza. Quindi si può avere esperienza soltanto di ciò che si manifesta, ovvero un fenomeno, e un fenomeno non può non avere caratteristiche spaziali perché ogni nostra esperienza è sempre situata spazio-temporalmente (concezione molto importante che verrà ripresa nelle opere successive).
Quest'opera è molto importante perché nei sogni di un visionario sono chiariti attraverso i sogni della metafisica Kant dimostra che in realtà la metafisica classica vuole cercare di dimostrare razionalmente conoscenze che in realtà vogliono porsi oltre l'ambito fenomenico, cosa che non è possibile perché ogni nostra conoscenza sensibile e ogni nostra conoscenza ideale deriva da una nostra conoscenza sensibile. La metafisica viene quindi ristretta all'indagine dei limiti della conoscenza umana (esplicito riferimento alla tradizione e il diritto di Locke).
E inoltre, come abbiamo detto, i sogni di un visionario sono importanti perché per la prima volta risulta come centrale, per muoversi all'interno di quelli che sono i limiti della conoscenza umana, il tempo e lo spazio, e vedremo saranno proprio lo spazio e il tempo i due concetti chiave per riuscire a superare anche gli esiti nefasti della concezione di Hume, ovvero saranno proprio lo spazio di tempo che dimostreranno come in realtà esistono delle forme a priori che non derivano dall'esperienza ma che anzi fondano l'esperienza stessa.
Questa questione Kant la affronta nell'ultimo suo testo pre-critico scritto nel 1759 che si intitola “De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis (Dissertazione sulla forma e i principi del mondo sensibile e intelligibile)”. In quest’opera Kant costruisce una netta separazione tra due mondi, un mondo sensibile e un mondo intelligibile, e lo spazio è la condizione formale a priori che ci permette la nostra percezione del mondo esterno, ovvero se noi non lo possedessimo già costitutivamente queste forme a priori dell’esperienza (lo spazio e il tempo, ovvero la capacità di spazializzare e temporalizzare le nostre esperienze) noi non potremo neanche avere un'esperienza, ovvero lo spazio e il tempo non seguono la nostra esperienza e quindi non derivano dall'esperienza ma la precedono, infatti noi non saremmo neanche in grado di capire che sia un'esperienza se non fossimo già in grado di situare questa esperienza dello spazio e nel tempo.
Questo è molto importante perché risponde a un'altra questione sulla quale si erano scontrati Leibniz e Newton, i quali avevano elaborato una concezione dello spazio agli antipodi; ovvero Newton sosteneva l'esistenza di uno spazio assoluto, ovvero l'esistenza di uno spazio universale, oggettivo e ontologicamente garantito, all'interno del quale si distinguono gli spazi relativi, quindi anche gli spazi relativi si fondono su questa universalità e oggettività dello spazio assoluto. Leibniz riteneva che lo spazio e il tempo fossero due realtà meramente soggettive, ovvero che non esistesse né uno spazio e né un tempo e quindi faccio esperienza dello spazio ad esempio osservando due oggetti nella realtà e capisco che esiste una distanza l'uno dall'altro e questa distanza in qualche modo rappresenta lo spazio. Quindi spazio e tempo sono relativi alle esperienze secondo Leibniz.
Kant come vedremo si pone in una posizione mediana perché anche lui ha bisogno di qualcosa di oggettivo e universale che gli permetta di garantire l'esistenza di qualcosa a priori (perché se lo spazio e il tempo derivano dall'esperienza questa priorità non viene garantita), però allo stesso tempo comprende che l'idea di uno spazio assoluto in realtà non è giustificabile. Perciò costruisce uno spazio che da una parte è soggettivo, ovvero che riguarda la struttura dell'uomo (ovvero che non è nient'altro che una facoltà che possiede l'uomo di poter cogliere sensibilmente la realtà esterna), ma che è allo stesso tempo universale perché è costitutiva all'interno dell'uomo.
Perché allora questa dissertazione non appartiene al pensiero critico? Perché in questa dissertazione Kant non ha ancora risolto un problema, l'unico problema che dovrà risolvere per poter poi poter concepire un pensiero critico. Questo problema è quello che riguarda l'uso dell'intelletto, ovvero in questa dissertazione mette in risalto un uso fenomenico dell'intelletto e quindi presenta l'intelletto come la nostra facoltà innata che però può esercitarsi unicamente sul mondo fenomenico, ma lui pensa ancora che l'intelletto abbia la possibilità non solo di farci conoscere e categorizzare i fenomeni ma che ci permetta anche di conoscere quello che sta dietro ai fenomeni, ovvero la sostanza. In questa dissertazione crede ancora che sia possibile non solo conoscere la cosa in quanto fenomeno ma che sia anche possibile conoscere la sua essenza, e che quindi sia possibile non solo una intuizione empirica ma anche una intuizione intellettuale.
La critica della ragion pura nasce quando Kant capisce che non si può avere un uso reale dell'intelletto e che noi non possiamo avere intuizioni intellettive.
Però Kant nel 1772 scrivere una lettera a Herts e gli dice di  avere risolto un problema che gli impediva di affrontare e quindi scrivere un'opera nella quale possa da una parte determinare i limiti della conoscenza e dall'altra garantire pur all'interno di questi limiti l'oggettività e l'universalità dei tali conoscenze. Perciò scrive all'amico che tra breve pubblicherà un'opera nella quale dimostrerà questo, tuttavia passano altri nove anni, Kant infatti si accorge di quanti problemi sorgano ad affrontare questo problema.

La critica alla ragion pura
“La critica alla ragion pura” è un'opera essenzialmente divise in tre parti ed ognuna di queste parti è caratterizzata dal riferimento a una facoltà conoscitiva che viene sempre accompagnata da una definizione, la critica alla ragion pura si divide quindi in: estetica trascendentale, logica trascendentale (la quale a sua volta divisa in analitica trascendentale e dialettica trascendentale).
La prima cosa sulla quale dobbiamo riflettere riguardo la Critica alla ragion pura è il titolo, ovvero critica: il termine deriva dal verbo greco credino cioè dividere, separare, scegliere e in un certo senso giudicare, quindi ecco che Kant quando afferma di voler condurre un'indagine critica vuole segnare i confini legittimi del nostro intelletto ed di ogni impiego della nostra facoltà di conoscere. Quindi l'intento per certi versi è lo stesso intento di Locke ma l'esito è diverso perché l'esito che si propone Kant è quello di eliminare i dubbi e le aporie aperte dalla concezione empirista inglese, che metteva in dubbio lo stesso statuto epistemologico ovvero quello statuto che determina i requisiti che ci permettono di arrivare a una conoscenza certa e scientifica.
Quindi stabilire i limiti non vuol dire determinare in che cosa consista la conoscenza, anzi la critica alla ragion pura non vuole un'analisi compiuta della conoscenza ma vuole essere un'analisi propedeutica della conoscenza. Come vedremo interrogandosi su tutti gli ambiti a cui la conoscenza tende ecco che Kant si interrogherà sulla possibilità sia di una conoscenza fisica (intesa come una conoscenza della fusis che si interrogherà quindi sulla mondo dei fenomeni) e sia su una conoscenza di tipo metafisico, ovvero una conoscenza che presuma, come ancora lui riteneva, che potesse cogliere le cose in sé e quindi le essenze e le sostanze.
Questo farà sì che poi fondamentalmente la critica della ragion pura sarà un'analisi tesa ad interrogarsi su queste due domande fondamentali:
1.       è possibile una scienza fisica?
2.       è possibile una scienza metafisica?
Alla fine Kant darà una risposta positiva alla prima domanda mentre una negativa alla seconda.

Lettura pag. 648 “Introduzione alla critica alla ragion pura”
Kant stabilisce una differenza tra logica e la matematica, infatti la logica ha a che fare solamente con se stessa e quindi ha a che fare solo con giudizi di tipo analitico, ovvero giudizi nei quali il predicato non aggiunge nulla al soggetto; mentre la matematica è una scienza in quanto è sintetica, ovvero le sue dimostrazioni ci riportano ad affermare qualcosa di ulteriore nelle predicazioni rispetto a quello che è contenuto nel soggetto.
La scienza, dice Kant, non nasce quando si osserva ma quando l'uomo inizia a decidere che cosa osservare (come le certe dimostrazioni e l'esperimento mentale di Galileo), cercando di vedere nella natura quello che lui stesso ha visto ovvero cercando quegli effetti che dovrebbero suffragare o meno la sua teoria. Anche in questo caso la fisica nasce come scienza quando l'uomo svolge all'interno di questo ambito un ruolo attivo, ovvero utilizza la sua ragione per far dire alla natura ciò che io voglio che lei dica (cioè la conferma a determinate teorie); in questo modo nasce la scienza, nasce non tanto dalla mera recettività e passività ma dall'attività spontanea delle facoltà umane; potremo dire che la scienza nasce solamente quando l'uomo è attore e consapevole di ciò che sta guardando diventando il giudice della natura.
E’ la natura che parla, nel senso che sono gli avvenimenti che accadono ma sia sapere scientifico quando noi non siamo meri spettatori ma quando siamo coloro che proiettano nella natura ciò che vogliono vedere. Il pensiero prescientifico dice Kant è una barcollare nella natura senza avere gli strumenti per cogliere quelle leggi che regolano i fenomeni che essendo leggi razionali sono poste dalla razionalità. E questo è essenzialmente il segno del moderno, che si inaugura con nell'età moderna anche in senso storico, e una cosa è effettivamente conquistata quando diventa essenzialmente strumentale a un guadagno e la scienza è questo, ovvero nasce come qualcosa che ha come scopo un guadagno e che in questo caso è per la scienza la dimensione predittiva.
La metafisica non ha ancora raggiunto questo stadio di scienza perché come vedremo in realtà non può raggiungerlo, la metafisica quindi barcolla ancora nei concetti non come la fisica che barcollava in qualcosa di concreto. Capiamo che a questo punto il concetto di metafisica per Kant si riduce soltanto a cercare se effettivamente possibile giustificare l'esistenza di qualcosa a priori (cioè prima di qualsiasi esperienza).
Compito di Kant sarà quindi quello di andare alla ricerca di qualche principio a priori che non coincide essenzialmente con una idea innata ma che si possa presentare come fondamento della nostra conoscenza sensibile (ovvero dalla nostra esperienza), non tanto quindi un sapere a priori che prescinde la dall'esperienza ma dei concetti a priori che fondino e legittimino la nostra esperienza.
La matematica è la fisica diventano scienza quando non è più la ragione che si piega agli oggetti ma è la ragione che costringe i fenomeni a piegarsi alla razionalità e alla conoscenza e quindi si tratta di compiere in ambito metafisico una rivoluzione come era stata quella copernicana in ambito astronomico, ovvero da sempre si ritiene che la conoscenza si basi su quella legge che avevano inventato nel medioevo e che si chiamava “adeguatio rei et intellecto” nel senso che l'intelletto si doveva adeguare all'oggetto per poterlo conoscere, ma questo in qualche modo faceva sì che se ciò è vero e se noi possiamo conoscere solo l'ambito fenomenico non sarebbe mai possibile fondare una conoscenza certa, perciò si tratta di fare un po' come aveva fatto Copernico ovvero di tenere fermo ciò che si pensava fosse in movimento e di far muovere ciò che si pensava fosse fermo, in questo caso si tratterà di cambiare l'impostazione e tenere ferma la ragione facendo muovere l'oggetto. Ciò vuol dire che non siamo noi che dobbiamo conformarci all'oggetto ma è l'oggetto quando si presenta in noi sotto forma di fenomeno che si deve adeguare alle leggi dell'intelletto e quindi i fenomeni si presentano in modo tale secondo determinati principi, che poi Kant chiamerà categoria, che appartengono al soggetto e permettono a quest'ultimo di conoscere.

Abbiamo quindi parlato della rivoluzione copernicana e cosa intende Kant, ovvero come attraverso la rivoluzione copernicana si può uscire da quel problema che impedisce alla metafisica, intesa come scienza che studia i limiti dell'intelletto umano, riuscire a fondare propri presupposti.
Ora naturalmente quando si tratta di indagare in che modo conosce l'uomo si deve partire dalla procedura attraverso la quale l'individuo conosce la realtà, ovvero quella dei giudizi; per Kant quindi l'uomo conosce attraverso un processo giudicante e giudizio in realtà vuol dire quello che intendeva Aristotele, ovvero predicare qualcosa di un determinato oggetto. Partendo da questa concezione del giudizio Kant individua tre tipi di giudizio che in qualche modo guidano l'attività speculativa (quella attività attraverso la quale noi conosciamo un mondo) del soggetto, e questi tre tipi di giudizi si trovano nuovamente nell'introduzione della critica alla ragion pura. Lettura pag. 652
Kant parte dalla definizione di giudizio, che per Kant significa porre in relazione un soggetto con un predicato o predicare qualcosa di un soggetto. Questa relazione si può stabilire soltanto quando il predicato B sia già contenuto in A (ovvero che corrisponde a quelle che Leibniz aveva concepito come verità di ragione, per cui quando si predica B di A non succede nulla), oppure il concetto B è qualcosa di diverso rispetto al concetto A.
I giudizi si dividono quindi in analitici, in cui il predicato è già contenuto nel soggetto, e sintetici in cui il predicato è qualcosa di diverso rispetto al soggetto. I giudizi analitici sono quindi quei giudizi nei quali il predicato dice qualcosa di identico al soggetto (non a caso i giudizi analitici sono per Kant dei giudizi della logica che si basano appunto sul principio di identità e di non contraddizione), perciò con i giudizi analitici non si estende la nostra conoscenza. I giudizi analitici sono quindi esplicativi, in quanto non fanno altro che spiegare in modo analitico qualcosa che già contenuto nel soggetto, i giudizi sintetici invece sono estensivi poiché ciò che predicano è qualcosa che non è direttamente ricavabile dall'analisi della soggetto.
Ora una giudizio analitico è per esempio “ una triangolo a tre lati”, è chiaramente una giudizio analitico perché nel soggetto triangolo è già contenuto alla predicazione di avere tre lati, infatti quando dico che un triangolo a tre lati non aggiungo nulla di più rispetto a quello che già sono; per lo stesso motivo “ tutti i corpi sono estesi” è un altro giudizio analitico in quanto non può esistere un corpo che non si è esteso. Se invece dico “ tutti i corpi sono pesanti” non posso dedurre la pesantezza immediatamente dal concetto di corporeo, affinché io possa fare esperienza della pesantezza di un corpo lo devo sollevare e quindi devo compiere un'esperienza per poterla giudicare della pesantezza di questo corpo.
Perciò tutti i giudizi dell'esperienza, che sono quindi a posteriori, sono tutti sintetici perché naturalmente attraverso l'esperienza io posso analizzare alcune caratteristiche di un determinato oggetto.
Tuttavia questi esempi fanno riferimento ad dei giudizi di cui già Leibniz aveva parlato, ovvero le verità di ragione e le verità di fatto, infatti i giudizi sintetici a posteriori non sono nient'altro che le verità di fatto; però qui sorge un problema se giudizi analitici sono solamente esplicativi sono sì universali ma in realtà sono sterili, non contribuiscono al formarsi di un sapere scientifico, i giudizi sintetici a posteriori invece sono sì fecondi, perché in una qualche modo ci dicono qualcosa di più, ma hanno un limite come tutti giudizio posteriori essendo figli dell'esperienza non sono oggettivi e dipendono da quella contestuale e specifica esperienza (infatti si modifica la pesantezza di un corpo se io mi trovo sulla terra o nello spazio). Le esperienze infatti non sono mai uguali in tutti tempi e in tutti i luoghi, invece un triangolo a tre lati ovunque e in una qualunque tempo.
Solo che è proprio questo il problema sul quale si erano basati Locke e Hume, se infatti i giudizi della logica non ci possono dire nulla in più sulla realtà tutte le scienze essendo basate sull'esperienza e quindi a posteriori non possono garantire con necessità una sapere oggettivo; ecco perché per Kant si tratta di vedere se sia possibile trovare altre forme di giudizio che colgano da una parte l'universalità dei giudizi analitici (e quindi dei giudizi a priori) e dall'altra l'estensibilità dei giudizi sintetici, ovvero vedere se noi possediamo oltre che formulare giudizi analitici a priori e giudizi sintetici a posteriori dei giudizi sintetici a priori. Naturalmente la risposta sarà positiva e su questo si baserà tutta la critica alla ragion pura.

Da subito Kant entra in conflitti con la concezione humniana e quello che Hume pensava sulla relazione causa-effetto, la relazione causale dice Kant non è una giudizio analitico perché non deriva dall'esperienza, anzi se io non possedessi la facoltà innata di concepire questa relazione causale potrei avere tutte le esperienze del mondo che comunque non si determinerebbe mai quell'abitudine che secondo Hume mi spinge a ritenere questa relazione di causa ed effetto tra i fenomeni, ovvero la relazione causa-effetto non deriva dall'esperienza ma precede l'esperienza ed è una delle categorie (uno dei concetti a priori) attraverso i quali io posso organizzare l'esperienza, anzi per Kant i fenomeni si presentano secondo quella modo proprio per concordare con le mie capacità di conoscere (sono i fenomeni che si presentano in una modo tale da concordare con il soggetto, vedi la rivoluzione copernicana).
Tutta la critica alla ragion pura sarà quindi un tentativo di scoprire quegli elementi a priori che possono fondare una conoscenza oggettiva ma anche di stabilire quali sono i limiti all'interno dei quali l'uso di questi principi può essere legittimo.
Un altro esempio che porta è quello secondo cui anche la matematica ha dei giudizi sintetici, infatti sette più cinque uguale a 12 è un giudizio sintetico non analitico, infatti il 12 non è contenuto ne nel sette ne nel cinque, ma è qualcosa che le aggiunge al sette e al cinque; quindi la matematica una scienza che al suo interno contiene giudizi sintetici a differenza della logica che invece è solo fondata sul giudizi analitici, il che vuol dire che la matematica non è riconducibile alla logica, perché mentre la logica un sistema coerente e completo la matematica che al suo interno contiene dei paradossi è un sistema incompleto, ovvero un sistema in cui non è possibile legittimare e giustificare tutte le proposizioni di questo sistema.

A questo punto abbiamo capito di cosa si occuperà e adesso vediamo la struttura della critica alla ragion pura. L’opera di Kant si divide in due parti, la prima parte è quella degli “elementi” (quella appunto in cui si scelgono i giudizi per trovare quegli elementi a priori che possono essere fondativi della nostra conoscenza) e poi c'è la seconda parte del “metodo” (che riguarda come si usano gli elementi e come devono essere utilizzati per realizzare una conoscenza adeguata).
Gli elementi naturalmente andranno ad analizzare tutte le forme di conoscenza dell'uomo, ovvero a individuare in ognuna delle forme di conoscenza i principi a priori che possono portarmi a una conoscenza legittima di ognuna di queste forme. Ora l'uomo può conoscere attraverso una conoscenza sensibile, cui sarà legata “l'estetica trascendentale” e poi c'è una conoscenza che si basa sui pensieri che poi è la “logica”; la logica a sua volta è divisa in due parti in relazione al modo di utilizzare pensieri: il primo che si ferma all'organizzazione concettuale dei dati che ci derivano dall'esperienza (ed è quella che riguarda l'attività dell'intelletto), che si chiama perciò “analitica” o attività dell'intelletto, e poi c'è un altro modo di utilizzare i pensieri, che è poi quello proprio della ragione, la quale cerca di costruirsi concetti che siano assolutamente indipendenti dall'esperienza, ovvero di organizzare dati che non sono fondati sull'esperienza.
Ora mentre l'analitica, che riguarda l'attività dell'intelletto, è per Kant un ambito legittimo, ovvero è possibile costruire legittimamente una conoscenza che si possa definire universale e oggettiva basandosi sull'attività spontanea dell'intelletto e sull'interpretazione che dà dell'esperienza, la dialettica, che è proprio della ragione, da luogo ad dei risultati inconcludenti, quindi la conoscenza razionale è indimostrata e inconcludente.
Infatti gli elementi cercano dei giudizi sintetici a priori o quei principi che permettono in qualche modo di giudicare sinteticamente a priori: nell'estetica saranno spazio, tempo e fenomeno, nella logica (che si basa sul concetto di “io penso” e sugli schemi concettuali) questo dà origine a giudizi, categorie, deduzione, schematismo e principi, nella dialettica invece da luogo ad antinomie (ovvero contraddizione).
Il terzo schema che permette di capire come tutto il linguaggio e tutta la critica alla ragion pura abbia dei riferimenti diretti con il pensiero precedente, in una particolare con il “ saggio sull'intelletto umano” di Locke, mentre ognuno degli altri settori (gli elementi, l'estetica, la logica ecc.) ha a che fare con altri riferimenti intellettuali, dei quali più importanti sono quelli di Wolff con la sua “Ontologia” e di Cartesio con le “Meditazioni metafisiche”, queste ultime in particolare sono per Kant è l'emblema della fallace conoscenza metafisica precedente.
Molto strano è invece l’ultimo schema, nel quale una parte è ombreggiata mentre l'altra no e ciò che è ombreggiato rientra nei limiti dell'intelletto e della conoscenza oggettiva, mentre ciò che non è ombreggiato e ciò che la nostra capacità conoscitiva non può coprire e quindi ciò che eccede i limiti dell'intelletto.

Ma abbiamo detto che Kant aggiunge alle parola estetica, logica, analitica ed estetica un predicato, ovvero quello di trascendentale che viene usato proprio per indicare un'analisi a partire da qualcosa di trascendente, ma in realtà l'utilizzo che dà di trascendentale Kant è quello di giudizio tecnico, che non ha niente a che fare con ciò che intendiamo di trascendentale anche se in qualche modo chiaramente fa riferimento al porsi oltre i limiti dell'esperienza e della posteriorità.
Lettura “Idea e suddivisione di una scienza speciale, denominata critica della ragion pura”, dove spiega in modo esplicito perché tutte le parti in cui è divisa la critica alla ragion pura si chiamano trascendentali.
Intanto capiamo perché si chiama critica alla ragion pura, infatti il termine pura significa a priori e quindi non contaminata dalla soggettività delle esperienze, una scienza pura è quindi quella che vuole identificare i propri principi puramente a priori e quindi il mondo scientifico e universale. Tra l'altro questa ricerca non può essere una dottrina, perché la dottrina è un insieme di conoscenze che si vogliono presentare come vere, ma Kant non cerca un insieme di conoscenze vere ma vuole fondare la nostra possibilità di conoscere e quindi di poter giungere alla verità, ecco perché si chiama critica, in quanto critica viene inteso come tentativo di stabilire e di legittimare la nostra conoscenza basata su principi assolutamente certi e che possono eliminare tutti gli errori che la nostra conoscenza può subire; ecco anche perché è definita propedeutica, perché è utile ad arrivare a una conoscenza adeguata e ci fa quindi capire fino a che punto possiamo fondare un sapere che possa pretendere alla distinzione di verità e falsità e dove ciò cessi, ovvero dove c'è attesa per noi non sono né veri e nel falsi si e quindi sono entrambe le cose.
Perciò quando Kant parla di trascendentale intende una conoscenza che non si occupa della conoscenza degli oggetti ma del modo con il quale noi possiamo conoscere le oggetti, si tratta di stabilire il modo attraverso il quale è possibile conoscere gli oggetti attraverso l'esperienza, attraverso l'intelletto e attraverso la ragione; dei principi a priori che ci permettono di garantire il nostro modo di conoscere in questi ambiti. Questa è la cosa più importante della critica alla ragion pura: cercare degli elementi che ci permettano in qualche modo di giustificare la nostra capacità di formarci dei giudizi sintetici a priori. Quindi non si occupa alla ragion pura di ampliare la nostra conoscenza ma si occupa di saggiare tra le nostre conoscenze quelle che hanno un valore e quindi sono legittime da quelle che non sono illegittime. Quindi si tende a scartare quei concetti che presentino in sé qualcosa di empirico e quindi non siano a priori, in quanto non possono essere concetti fondativi della nostra conoscenza.

L’estetica trascendentale
Per Kant il concetto di estetica ha un significato diverso da quello che intendiamo noi infatti si affida ancora a un linguaggio classico e utilizza questo termine nel suo significato classico dal greco Aestesis, che significa fare esperienza, perciò l'estetica riguarderà la conoscenza che riguarda la sensibilità e l'esperienza ma naturalmente anche qui si tratta di portare avanti un'estetica trascendentale, allora si dovrà cercare in principi fondativi del modo in cui noi conosciamo sensibilmente e quindi se esistano dei principi a priori fondino la nostra conoscenza sensibile (principi che quindi non derivano dall'esperienza ma che precedono l'esperienza).
Kant riprende il concetto di intuizione di Ockam e viene usato nello stesso significato di esperienza immediata: un oggetto si presenta noi immediatamente attraverso l'intuizione, intuire un oggetto vuol dire quindi fare esperienza immediata della sua esistenza e non ho certo bisogno di alcuna mediazione.
Tuttavia questo si riscontra soltanto quando l'oggetto sia dato, ovvero qualcosa che si offra a noi e nel suo darsi determina una modificazione del nostro animo (sensazione come perturbazione dell'animo), quindi la sensibilità è qualcosa di recettivo e di non spontaneo perché deriva dal fenomeno e dal suo darsi a noi.
Le intuizioni noi le abbiamo attraverso la sensibilità ma in realtà noi abbiamo un altro modo di conoscere gli oggetti ovvero il pensiero, ed è il pensiero che mi permette di formarmi il concetto e che mi permette di pensare all'oggetto anche quando questo non è presente. Ora naturalmente c'è differenza tra l'intuizione e il pensiero e in particolare differiscono per il modo di conoscere: il modo di conoscere dell'intuizione è un modo recettivo e quindi non spontaneo, mentre il modo di conoscere del pensiero è spontaneo ma non è svincolato dai fenomeni in quanto l'oggetto ci deve essere dato dall'esperienza, “nihil est in intellecto quod non fuit in senso”. Ma come vedremo Kant si ricorda benissimo come aveva modificato la frase Leibiz, ovvero “excipe intellecto”, ovvero “tranne l'intelletto stesso”, in quanto l'intelletto e la nostra facoltà di conoscere precede l'esperienza, anzi come vedremo per Kant è l'esperienza che si presenta in modo tale da poter essere conosciuta dal soggetto conoscente, ovvero i fenomeni si organizzano in vista della possibilità della conoscenza del soggetto.
L’intuizione che si riferisce ad un oggetto viene definita empirica, ovvero che si basa sull'esperienza, mentre l'oggetto dell'intuizione empirica è il fenomeno, ovvero l'oggetto che si manifestano a noi; il fenomeno a sua volta si compone di due elementi: uno contenuto, che è la materia (che è molteplicità delle caratteristiche che io percepisco del fenomeno in quanto tale) è una forma, che sono quei rapporti secondo cui in queste molteplicità di caratteristiche si uniscono essi presentano come qualcosa di unitario a noi, ovvero quelle leggi che determinano che la molteplicità percepibile di un fenomeno si presenti come un fenomeno unitario.
Ora questo ci fa concepire che mentre il contenuto della materia ci possono essere dato solo a posteriori, la forma in cui queste caratteristiche si uniscono è qualcosa che non ci può essere dato dall'esperienza a posteriori perché è quella legge della sensazione secondo la quale noi possiamo cogliere questa molteplicità come un'esperienza unitaria e quindi una fenomeno, perciò dev'essere qualcosa che precede la sensazione e quindi qualcosa che è a priori, perché se non esistessero a priori queste leggi secondo le quali le caratteristiche si uniscono tra loro e diventano fenomeni noi non potremo neanche fare esperienza del fenomeno in quanto tale e quindi avremo nient'altro che un insieme caotico di stimolazioni percettive indistinte. Perché noi si possa, dice Kant, percepire una fenomeno dobbiamo possedere già a priori queste forme che ci permettano di organizzare l'esperienza, e sarà proprio in base a queste forme che l'esperienza si presenterà in modo fenomenico. Vengono quindi definiti sensi trascendentali queste forme, che poi saranno i concetti, che precedono l'esperienza e sono perciò pure.  Chiaramente mentre l'intuizione empirica è ciò che ci fa cogliere il fenomeno nel suo contenuto nello stesso tempo abbiamo una intuizione pura, che è l'intuizione delle forme secondo le quali si organizzano i dati fenomenici, ed è un'intuizione pura perché precede la sensazione.
Quindi se io elimino tutti i contenuti del fenomeno rimane il fatto che questo fenomeno ha una dimensione estensionale, ovvero lo spazio, ecco che quindi abbiamo scoperto una forma dell'intuizione pura che è quella dello spazio, quindi ogni sensazione si presenta e si organizza in base a caratteristiche spaziali. Perciò la dimensione dello spazio precede la sensazione perché vale per qualsiasi esperienza, se io non avessi già in me la forma dell'intuizione pura dello spazio io non potrei neanche fare esperienza dei fenomeni; perciò non è lo spazio che deriva dal fenomeno ma è la possibilità del fenomeno che deriva dallo spazio e quindi è l'oggetto in quanto fenomeno nel suo modo di rappresentarsi che si piega a una forma dell'intuizione che è propria della soggetto e che quella della spazialità.
Quindi una forma l'abbiamo già trovata e l'altra naturalmente sarà il tempo, che è l'altra forma dell'intuizione pura; come vedremo mentre lo spazio è la forma della senso esterno (ovvero quello che ci permette di cogliere le sensazioni al di fuori di noi) il tempo è la forma dell'intuizione della senso interno (ovvero che ci permette di concepire l'ordine seriale delle nostre sensazioni interne è appunto ci permette di stabilire un prima e un dopo di questa sensazione) e se non avessi questa forma del tempo non potremmo neanche cogliere la differenza tra le varie sensazioni e tra il prima e il dopo la sensazione interna.
Adiamo quindi a vedere quale caratteristiche hanno questo spazio e questo tempo per Kant, ovvero quale caratteristiche hanno le forme dell'intuizione pura.

Lo Spazio
Per mezzo del senso esterno noi ci rappresentiamo gli oggetti come fuori di noi e come tutti assieme nello spazio, il questo modo sono determinabili la loro forma, la loro grandezza e i loro rapporti reciproci. Il senso interno invece ci fa capire che noi abbiamo una centro interno dell'elaborazione delle nostre sensazioni ma non ci permette l'intuizione di una sostanza, mentre il senso esterno prevede una intuizione empirica di qualcosa che possiamo definire un oggetto o una fenomeno di qualcosa che era fuori di noi.
E se non possedessi la forma dell'intuizione pura dello spazio io non saprei neanche cogliere i rapporti spaziali tra le cose, quindi aveva ragione Leibniz quando diceva che lo spazio è strettamente legato all'esperienza ma non aveva capito una cosa, ovvero il fatto che precede tale esperienza in quanto rappresenta una caratteristica costitutiva che ogni soggetto conoscente ha.
Ciò che ci fa capire la priorità dello spazio rispetto ai fenomeni che si presentano in modo spaziale e che io non posso concepire l'assenza di uno spazio mentre posso concepire uno spazio che non sia più occupato da quella fenomeno; perciò lo spazio è la condizione della possibilità dei fenomeni e del fatto che si abbia un'esperienza fenomenica, ovvero per Kant se non ci fosse lo spazio non sarebbe possibile e le fenomeno.
Tra l'altro lo spazio è unico ed universale, ma in realtà questo spazio unico e universale non è nient'altro che una forma della nostra intuizione pura di cui noi facciamo un'esperienza attraverso le parti di spazio che effettivamente esperiamo quando facciamo esperienza di un fenomeno; e come già detto l'intuizione esterna è possibile solo attraverso la forma dell'intuizione pura definita spazio.

Il Tempo
E’ la seconda forma della intuizione pura, il quale non deriva dall'esperienza che noi facciamo della simultaneità, ovvero due eventi che capitano nello stesso momento, o della successione di due eventi, non deriva da lì la nostra conoscenza del tempo, quindi non ha un'origine empirica, anzi se noi non possedessimo questa forma a priori di conoscenza del tempo noi non potremo neanche concepire la simultaneità e la successione perché i concetti di simultaneità e di successione sono già diversi dai concetti temporali e che quindi fanno riferimento a una pre-intuizione del tempo e quindi a una intuizione pura del tempo stesso; quindi non possiamo avere una intuizione empirica del tempo perché abbiamo a priori una esperienza pura del tempo stesso. Come è stato quello spazio non possiamo concepire un tempo senza fenomeni ma non possiamo concepire dei fenomeni senza tempo.
Questi assiomi, che in qualche modo io posso ricavare a partire dalla dimensione della temporalità nella quale mi sento di poter affermare la necessità della loro posizione, ovvero che sia necessaria la preposizione tempi diversi non sono simultanee, deriva dal fatto che devo fare esperienza di qualcosa che sia necessario e non contingente, ciò che è contingente può portare unicamente alla probabilità di qualcosa, ma io avverto nell'espressione di tempi diversi non possono essere simultanee una sorta di relazione necessario; questa necessità deriva dal fatto che io ho una pre-intuizione del tempo, quindi qualcosa di precedente che è l'intuizione del tempo.
Così come per lo spazio anche per il tempo non bisogna pensare che siano dei concetti, infatti spazio e tempo hanno a che fare con la sensibilità e perciò non sono due categorie ma due forme dell'intuizione esterne ed interne.

La logica trascendentale
Ma Kant già nell'introduzione della critica alla ragion pura aveva detto che in realtà noi non conosciamo solo attraverso la sensibilità, in quanto la sensibilità è quella parte della conoscenza passiva nella quale le noi riceviamo i dati che ci fornisce l'esperienza, ma in realtà noi conosciamo anche in modo attivo e quella facoltà che ci permette di conoscere in modo attivo è l'intelletto, ovvero noi conosciamo sia attraverso le intuizioni sia attraverso i concetti e quindi attraverso il pensiero. Il pensiero naturalmente è spontaneo, perché la nostra facoltà di associare tra di loro le rappresentazioni che l'esperienza ci offre per formare i nostri pensieri; ora la disciplina che si occupa dei pensieri e del loro corretto funzionamento è la logica, ecco perché la seconda parte della critica alla ragion pura si chiama logica trascendentale.
Ora per Kant queste due facoltà, ovvero la sensibilità e il pensiero, non possono che stare insieme in quanto non si può conoscere solamente attraverso il pensiero, perché il nostro pensiero senza la sensibilità sarebbe vuoto in quanto non avrebbe contenuti sul quale agire, ma neanche si può conoscere solo attraverso la sensibilità, perché altrimenti la sensibilità sarebbe cieca perché noi non sappiamo neanche che cosa effettivamente stiamo vedendo se il nostro intelletto non ci permettesse di comprendere quello che stiamo vedendo. Quindi la sensibilità senza l'intelletto è cieca mentre l'intelletto senza sensibilità è vuoto.
La logica, che come sappiamo è divisa in analitica trascendentale e dialettica trascendentale, è appunto una logica trascendentale e non formale, ovvero non coincide con quella logica formale perché questa si occupa solamente dell'accordo della conoscenza con se stessa (ovvero studio quelle strutture formali che permettono di formarci un pensiero che sia formalmente corretto indipendentemente dai contenuti della conoscenza), invece per Kant la logica trascendentale si deve cooperare anche dei contenuti della conoscenza sempre secondo quell'idea di trascendentale, ovvero la ricerca di quei principi a priori che riguardano non che cosa conosciamo ma come conosciamo, quali elementi fondamentali si pongono all'origine di come conosciamo, di questo si occupa la logica trascendentale e in particolar modo l'analitica trascendentale.
Si tratta quindi di vedere se esistono delle conoscenze e quindi dei concetti sintetici a priori, ma soprattutto si tratta di ristabilire l'estensione della possibilità di utilizzo di questi concetti sintetici a priori, ed è proprio sulla estensione della possibilità di utilizzo che si situa la distinzione tra analitica trascendentale e dialettica trascendentale, naturalmente l'analitica si trova all'interno dei limiti mentre la dialettica si pone fuori da essi. E non a caso Kant utilizza il termine analitica perché come sappiamo questo è lo stesso termine che aveva utilizzato Aristotele, che chiamava la sua logica analitica, per evidenziare le figure fondamentali dell'essere e della logica, che per Aristotele erano le categorie; la stessa cosa fa Kant nella ricerca degli elementi sintetici a priori che ci permettono di conoscere ogni cosa percepita dall'esperienza.
Ecco che quindi capiamo che nell’analitica Kant pone questo tipo di processo:
1.       prima divise concetti puri dell'intelletto
2.       poi cerca di giustificare questi concetti e soprattutto la loro possibilità di essere applicati a degli oggetti
3.       ed infine cerca di dimostrare quali norme regolino questa applicazione (dei concetti sugli oggetti), cosa che di per sé crea un problema perché i concetti riguardano una dimensione logica del pensiero mentre gli oggetti riguardano la dimensione ontologica e come sappiamo da Cartesio in poi tra le due sembrerebbe non esserci elemento di congiunzione.
Perciò si tratta di stabilire uno contatto tra queste due realtà così eterogenee, è proprio questa sarà la parte più cospicua della analitica trascendentale.
Per Kant la facoltà preposta ad unire le nostre rappresentazioni è l'intelletto, il quale ha una funzione essenzialmente una funzione di compiere un'azione predicativa, ovvero come direbbe Aristotele di giudicare, ecco perché per cercare di individuare quali sono le categorie fondamentali che regolano il nostro modo di conoscere logicamente Kant parte dai tipi di giudizio è possibile individuare.
Ora per Kant giudicare significa esattamente quello che intendeva Aristotele, ovvero giudicare significa predicare qualcosa di un determinato soggetto, perciò si devono trovare quelli che sono i predicati fondamentali ovvero quelli che si possono predicare di qualsiasi cosa indipendentemente da qualsiasi sia l'esperienza. Per Kant quindi i modi di giudicare sono sostanzialmente quattro: giudizi quantitativi, giudizi di qualità (che erano già stati trovati da Aristotele), giudizi di relazione (ovvero quale relazione possibile porre nell'oggetto in sé stesso e negli oggetti tra di loro) ed infine giudizi di modalità (il modo di concepire certi giudizi nella relazione che si pone tra le leggi della soggetto conoscente e le leggi della realtà).
Per Kant i giudizi di quantità si dividono a loro volta in particolare e universale, ma Kant aggiunge anche il giudizio singolare, infatti è chiaro che si può dire per esempio che alcuni alunni sono malati (particolare), tutti gli alunni sono malati (universale) ma posso anche dire l’alunno A è malato (singolare).
Poi ci sono i giudizi di qualità e anche qui Kant aggiunge un altro, Aristotele infatti aveva già individuato i giudizi affermativi (l’alunno A è malato) e i giudizi negativi (l'alunno A non è malato), a questi Kant aggiunge il giudizi infiniti che sono giudizi che a partire dall'affermazione di che cosa uno non è lasciano aperte tutte le altre infinite possibilità, per esempio l'alunno A è non genovese, l’alunno A può coincidere quindi con tutte le infinite cose che coincidono con il non essere genovese.
Naturalmente tutti questi giudizio le posso fare su qualsiasi tipo di fenomeno ed aver questo che sono a priori.
Ci sono poi i giudizi di relazione, che si dividono in una giudizi categorici, per esempio la mela è rossa è un giudizio categorico perché afferma categoricamente che una sostanza presenta una qualità (ecco perché le categorie saranno di inerenza e sussistenza) ovvero riguarda il raccoglimento di un fenomeno nella sua realtà simultanee. Invece il giudizio di relazione è ipotetico quando si basa sulla condizionale, che in qualche modo riguarda la simultaneità, per esempio se dà uno schiaffo a qualcuno la sua guancia si arrossa, determina quindi un rapporto di causa ed effetto tra l'arrossarsi della guancia e il mio schiaffo.
Infine ci sono i giudizi di relazione disgiuntivi, per esempio quando dico Adriano o è sveglio o dorme; e come vedremo la categoria è quella della comunanza, ovvero l'azione reciproca fra agente e paziente.
Per finire ci sono i giudizi di modalità, che si dividono in una giudizi problematici (per esempio l'alunno A può essere promosso, ma potrebbe anche non esserlo), i giudizi assertori, che riguardano qualcosa che avviene propriamente nella reale (per esempio è reale che l'alunno A stia attento durante la lezione) ed infine ci sono i giudizi apodittici, che sono quelli necessari (per esempio è necessario che l'alunno A sia razionale, infatti essendo un uomo deve avere come caratteristica costitutiva la razionalità, oppure necessario che una cosa non posso occupare due posti contemporaneamente).
La parte più propriamente kantiana è quella di attribuire a ognuno di questi giudizi una corrispondente categoria, ovvero l'evidenziazione di un concetto sintetico a priori che rappresenta i concetti fondamentali attraverso i quali opera la nostra attività di riunificazione delle rappresentazioni che ci derivano dal mondo esterno.
Ora è chiaro che la categoria della singolarità sarà l'unità, la categoria della particolarità sarà la pluralità e quella dell'universale sarà la totalità. La categoria del giudizio affermativo sarà la realtà, quella del negativo sarà la negazione mentre la categoria dell'infinito sarà la limitazione, perché è proprio dalla limitazione di un determinato fenomeno che si stagliano le infinite possibilità di essere altro rispetto con fenomeno.
Tuttavia adesso andiamo su categorie che non sono neanche categorie singolari ma sono quasi sempre categorie bipolari, perché naturalmente la relazione determina che ci siano almeno due tipi di qualità.
Le categorie del giudizio di relazione categorico sono appunto l'ingerenza e la sussistenza: fenomeno qualsiasi tipo di fenomeno avrà delle caratteristiche, non so quali ma di sicuro ne ha, così come ogni fenomeno deve fare riferimento a qualcosa che sussista.
Molto importanti sono invece le categorie che riguardano i giudizi ipotetici perché sono appunto quelle della causa e dell'effetto, che era ciò che gli empiristi mettevano in una discussione.
La categoria invece della giudizio disgiuntivo è quella dell'azione reciproca fra la gente e paziente perché è chiaro che è uno dei due disgiunti necessariamente agisce sull'altro, per esempio Adriano dorme, quindi sicuramente non è sveglio e il fatto di dormire agisce sul fatto di non essere sveglio.
Le categorie della giudizio modale problematico sono quelle della possibilità e della impossibilità, il giudizio problematico infatti riguarda cose che possono essere possibili ma anche non esserlo.
Il giudizio assertorio riguarda invece l'esistenza e l'inesistenza, infatti se dico l’alunno A è attento alla lezione ammetto l'esistenza di un alunno A.
Infine le categorie del giudizio apodittico sono la necessità e la contingenza, queste sono molto interessanti perché richiamano le categorie del giudizio problematico, infatti è vero che ciò che è possibile è contingente così come è vero che ciò che è impossibile è invece necessario (non può che non essere).

Come abbiamo detto però, al di là dell'individuazione di queste 12 categorie, la cosa importante è vedere le altre parti, ora Kant ha individuato queste 12 categorie ma in realtà si tratta di giustificare l'esistenza di queste categorie è compito di questa legittimazione sarà affidato da Kant a quella parte dell'analitica trascendentale che lui chiama deduzione trascendentale.
In realtà appena sentiamo il termine deduzione intendiamo la forma di ragionamento in cui le conclusioni derivano in modo necessario dalle definizioni secondo un sistema di tipo consequenziale, invece Kant utilizza un significato giuridico per cui deduzione significa giustificazione e legittimazione. Ecco che quindi capiamo che cosa si intenda per deduzione trascendentale, ovvero una dimostrazione tesa a mettere in luce l'uso legittimo delle corrispondenti categorie, ovvero di quelli elementi che servono a stabilire e riconoscere le cose a priori.
La deduzione trascendentale è fondamentale perché questa giustificazione delle categorie come funzioni fondamentali del nostro intelletto senza le quali ci è impossibile compiere qualsiasi tipo di operazione, è ciò che permetterà a Kant di dimostrare come i nostri intelletti non sono delle tabule rasea, ma in realtà non è neanche una pagina scritta, come pensavano per certi versi Cartesio e Spinoza, in cui ci siano già scritte determinate idee. L’intelletto per Kant non è né una pagina di Word vuota e ne una pagina scritta, ma è un po' come un foglio Excel, il quale è un foglio elettronico e quindi sono già previste all'interno di questo foglio determinate funzioni che permettono laddove si vadano ad attivare la possibilità di operare sui dati che ci vengono forniti. Ovvero se non ci fossero prescritte queste funzioni nel foglio elettronico certe operazioni non potrebbero essere effettuate, l'intelletto è quindi per Kant come un foglio nel quale però resistono delle funzioni fondamentali che si permettono in qualche modo di ordinare in modo consapevole i dati che ci fornisce l'esperienza; ovvero questi dati sono leggibili perché a priori sono ordinati attraverso queste funzioni, anzi in realtà, come la rivoluzione copernicana, i dati che vado a scrivere su un foglio non solamente possono essere lette soltanto grazie a queste funzioni ma si presentano loro in modo da poter essere lette da queste funzioni, e quindi i fenomeni si presentano in modo tale non solo da soddisfare le forme dell'intuizione pura (e quindi da poter essere colti in modo sensibile) ma si presentano già in modo tale da poter essere pensati e quindi si mostrano a noi in modo tale da conformarsi a questi elementi fondamentali a priori che sono le categorie, che rappresentano il nostro modo di unificare le rappresentazioni.
Detto questo si tratterà di dimostrare se è vero e in particolar modo di mostrare perché proprio le categorie, come è possibile che avvenga questo ed infine bisognerà vedere quale leggi le quali regole da questo derivano per poter realizzare questo meccanismo che presiede la nostra capacità di pensare. Come vedremo per Kant tutto questo parte dal fatto che in noi esiste un centro che ha il compito di unificare le rappresentazioni che c'arrivano dalla realtà circostante.

L’io penso
Abbiamo detto che l'induzione trascendentale serve a giustificare non solamente le categorie ma anche l'uso delle categorie perché il nostro intelletto dovrebbe funzionare nell'elaborazione del pensiero sulla realtà attraverso le categorie; come vedremo la spiegazione passa attraverso una figura che sarà centrale che è quella “dell'io penso” o “io trascendentale”, ovvero quella unità sintetica delle rappresentazioni che noi in quanto soggetti conoscenti per Kant siamo, ovvero il fatto che tutte le rappresentazioni che ci facciamo in qualche modo le riferiamo ad una medesimo centralino, quello che in realtà chiamammo medesimo soggetto, che un tempo chiamavamo io e che Cartesio chiamava res cogitans.
Quale è l'elemento di permanenza Adriano di tre anni e Adriano di 40 anni? Il fatto che riteniamo che tutte le esperienze fatte siano state elaborate da un unico soggetto, che un tempo si chiamava anima per la filosofia classica e che adesso Kant chiama io trascendentale.
Lettura “Della possibilità di una conclusione in generale”
Per Kant quella congiunzione ci permette di unificare tutte le percezioni che io ho quando vedo una cosa e che mi permettano di unire questi stimoli percettivi e me li fanno unire in un unico fenomeno, questa unione chiaramente non si compie nell'esperienza ma non può che compiersi nel soggetto, quindi non mi deriva dai sensi ma è prioritaria rispetto ai sensi. Quindi questa unione delle rappresentazioni è quella facoltà spontanea del nostro intelletto e che fa dell'intelletto un organo spontaneo a differenza dei sensi che invece sono passivi.
Perciò noi dalla realtà esterna prendiamo la molteplicità di percezione e siamo noi che purifichiamo questi stimoli percettivi, quindi ecco perché sono prodotti dell'intelletto e non derivano dall'esperienza; naturalmente la capacità di scomporre un fenomeno nelle sue parti deriva anch'essa da questa facoltà dell'intelletto è unità sintetica delle nostre rappresentazioni. Questa potenzialità di congiungere le nostre rappresentazioni naturalmente non coincide con la categoria dell'unità perché è qualcosa di diverso e ulteriore, infatti la capacità di produrre l'unità partendo dalla molteplicità non le può appartenere perché la categoria dell'unità esiste in quanto è già data la congiunzione.
Questa intuizione del io penso come unità sintetica, ovvero questa consapevolezza a differenza delle altre che non deriva dall'esperienza, è una percezione pura e a priori, ovvero io sono sempre consapevole a priori del fatto di essere una soggetto conoscente e quindi di essere un io penso, naturalmente questo io penso si caratterizza in questa volontà spontanea dell'intelletto di unificare le nostre percezioni, perché altrimenti se io non avessi la consapevolezza di ciò a priori non potrei neanche ricondurre tutte le mie conoscenze ad un unico centro.
Tutte queste rappresentazioni devono essere ricondotte a questa concezione originale che coincide e corrisponde alla facoltà dell'intelletto di unificare la molteplicità delle percezioni, ogni mia conoscenza in qualche modo è una mia conoscenza nella misura in cui io posso sempre fare riferimento a questa facoltà che costantemente unifica le mie percezioni, ovvero l’io penso; posso infatti dire che è mia perché ritengo che queste molteplici percezioni siano state elaborate dallo stesso io penso, uno può come tutte le telefonate di un ufficio sono tali perché vengono raccolte da un unico centralino e se non esistesse quest'unico centralino nessuno potrebbe capire che tutte quelle telefonate hanno qualcosa di costante, ovvero il fatto di provenire da uno stesso ufficio.
Ma attraverso quali strumenti questa facoltà può unificare tutte queste rappresentazioni? Quali sono le funzioni attraverso le quali funziona questo centralino? Come il centralino unifica tutte queste rappresentazioni? Non può che farlo che attraverso concetti a priori che sono appunto le categorie, ecco che così abbiamo anche giustificato il perché delle categorie e anche il loro ruolo. Ma in realtà manca la parte più importante, noi sappiamo infatti che i fenomeni si mostrano a noi seguendo quelle leggi che sono le stesse leggi dell'intelletto, ovvero le categorie, con le quali noi purifichiamo le rappresentazioni, quindi il nostro intelletto condiziona il modo di presentarsi degli oggetti ma non produce gli oggetti in quanto tali, ovvero il nostro intelletto costringe gli oggetti a presentarsi come fenomeni e non modo tale da corrispondere alle leggi dell'intelletto, ovvero le categorie. Ma se questo è vero ecco che salta fuori quella distanza tra il mondo della soggettività (che possiamo chiamare io penso, oppure un trascendentale appercezione pura) e la realtà dei fenomeni; ora noi sappiamo che Cartesio ci aveva detto che queste due dimensioni sono eterogenee, ovvero l'una non può influire sull'altra, Kant quindi deve dimostrare che in realtà non è così e che i fenomeni si sottomettono alle categorie. Avrà quindi bisogno di un ponte, ovvero qualcosa che sia attaccato un po' sull’isola dell’io penso e un po' su quella dei fenomeni, e quindi si dovrà trovare qualcosa che sia al contempo soggettiva ma radicata anche nella dimensione oggettiva, perciò c'è nell'uomo qualcosa che appartiene alla dimensione della coscienza ma che in qualche modo è anche un elemento essenziale del mondo sensibile e fenomenico? Come abbiamo detto nell'estetica trascendentale i fenomeni si presentano a noi in una dimensione spazio-temporale, perché corrispondono alle forme dell'intuizione pura che appartengono alla soggetto, ovvero lo spazio di tempo, il che vorrà dire che i fenomeni sono spazio temporali e la coscienza è spazio temporale e quindi sarà una delle due forme dell'intuizione pura, ma quale delle due forme dell'intuizione pura? Sarà il tempo perché questo è una forma dell'intuizione pura che Kant definisce più generale dello spazio, perché per certi versi contiene lo stesso spazio, ovvero il senso interno contiene il senso esterno perché le percezioni che noi abbiamo della realtà circostante (senso esterno) vanno a modificare la nostra interiorità e quindi diventano un senso interno. Per esempio se io vedo qualcosa naturalmente dentro di me avverto questa modificazione che si è determinata dalla percezione di qualcosa, quindi il senso esterno, ovvero la visione degli oggetti esterni, in realtà entra dentro di me e diventa senso interno in quanto percezione, quindi il tempo è più generale dello spazio perché in qualche modo anche la realtà esterna e poi raccolta all'interno della dimensione interna.
Quindi sarà proprio il tempo a permetterci il passaggio da una dimensione all'altra, ma che cosa si produce affinché in qualche modo i fenomeni da una parte si organizzino in base alle categorie, e noi possiamo cogliere in base alle categorie? Dice Kant che noi organizziamo le nostre rappresentazioni in basa degli schemi trascendentale, di cui noi non siamo consapevoli di produrli perché sono frutto di quella che Kant definisce immaginazione produttiva; la nostra immaginazione produttiva quindi produce questi senza che noi ne siamo consapevoli, in realtà li possediamo e in una realtà organizziamo i dati che ci fornisce l'esperienza attraverso questi schemi che precedono l'esperienza, ma noi non siamo consapevoli della riduzione dei dati fenomeni a questi schemi. Ora schema in greco significa figura ma in realtà non bisogna pensare ad delle immagini, cioè non è vero che ci facciamo delle immagini delle cose, perché le immagini sono sempre contingenti e gli schemi devono valere in ogni circostanza, quindi gli schemi non sono nient'altro che dei rapporti costanti che condizionano l'esperienza e che si originano da una temporalizzazione delle categorie. Questo condizionamento degli schemi sono in una base al modo di presentarsi degli oggetti in quanto fenomeni sono dei condizionamenti formali e non materiali, quindi la forma del modo di presentarsi dell'oggetto deve corrispondere a questi schemi. Ma la temporalizzazione delle categorie vuol dire che le 12 categorie possono essere riuniti nei quattro modi di giudicare (quantità, qualità, modalità e relazione) la realtà e che ognuno di questi quattro tipi subisce in modo inconsapevole una riduzione temporale, ovvero la riduzione temporale di una quantità ci permette di creare lo schema del numero ovvero la serie delle omogenee nel tempo; la temporalizzazione della qualità mi permette di formarmi lo schema del grado, ovvero ogni cosa si presenta con una gradualità differente.
La sostanza è una delle forme di temporalizzazione della relazione, ovvero ciò che permane simultaneamente e ciò che invece è contingente (4630); o dalla successione del tempo mi informò lo schema che in qualche modo mi permette di stabilire la relazione di causa-effetto, è logico che ciò che viene dopo non può essere causa di ciò che viene prima e viceversa.
Quindi lo schema dipende da questa temporalizzazione delle categorie e dei modi delle categorie in quanto tali; ora gli schemi in realtà sono qualcosa di relativamente dimostrabile ma per Kant lo schematismo trascendentale e come vedremo la determinazione dei principi puri dell'intelletto (che riguardano le regole attraverso le quali noi utilizziamo gli schemi) invece rappresentano il compimento della sua filosofia, la parte più importante perché è solamente una volta che è stata concepita questa teoria dello schematismo trascendentale potremo dire che è risolta la possibilità di giustificare l'esistenza di concetti a priori, che in qualche modo non solamente vengono prima dell'esperienza ma che fondano l'esperienza.
Lettura “I principi puri dell'intelletto”
Una volta risolto questo problema degli schemi trascendentali, ovvero quello di come sia possibile congiungere questi due mondi così diversi, Kant procede a stabilire quali sono i principi, ovvero le regole, che si possono stabilire come costanti e formali del nostro modo di incontrare le esperienze, ovvero dice Kant noi incontriamo sempre l'esperienza obbedendo a queste leggi fondamentali che sono i “principi puri dell'intelletto”.
Nuovamente Kant parte dalle categorie, che rappresentano il nucleo di tutte le teoria Kantiane, quindi i principi puri faranno riferimento ai quattro tipi delle categorie (ovvero quantità, qualità, relazione e modalità) e vedremo come i principi puri sono quattro ed ognuno di essi richiama una delle quattro categoria:
1.       Assiomi dell’intuizione, i cui postulati sono: tutte le intuizioni sono qualità e estensive, ovvero tutto quello che intuisco empiricamente presenta caratteristiche di estensione e quindi di spazialità, sono quantitativamente determinate
2.       Anticipazioni dell’esperienza, tutte le percezioni che avrò possono anticipatamente affermare che avranno una certo grado quantitativo
3.       Analogie dell’esperienza, queste sono le più importanti di tutte, il loro principio è quello che è anche in questo caso non so che il tipo di connessione esista la tra le percezioni ma so che necessariamente queste percezioni che io ho faranno in qualche modo connesse le une con le altre, ovvero potremo dire che si porranno lungo la successione temporale per cui da una percezione ne deriverà un'altra; come vedremo di queste analogie dell'esperienza Kant ne individua tre:
·         principio della persistenza della sostanza, ovvero laddove fenomeni cambiano però permane qualcosa (per esempio può cambiare il colore della mela ma la mela rimane sempre), questo richiamo anche un concetto presocratico, ovvero nulla si crea nulla si distrugge e il quantum della sostanza non si modifica mai
·         principio della serie temporale secondo la legge della casualità, ovvero tutti i mutamenti che riguardano l'orizzonte fenomenico e quindi i fenomeni in quanto tali seguono la legge di causa ed effetto, e di questo dà anche una dimostrazione: per esempio se io ho due percezioni successive nel tempo, la prima del registro sopra il banco e la seconda del registro per terra, io percepisco che esista una connessione che in qualche modo deve legare queste due percezioni opposte e quindi deve esistere una legge che collega questi due fenomeni cioè la relazione causa-effetto. In una realtà del tempo che separa un evento dall'altro io non ne ho una intuizione empirica, quindi vuol dire che questa successione temporale non è qualcosa che deriva dall'esperienza ma sarà qualcosa che viene prodotto dalla mia immaginazione, ovvero è uno schema che in qualche modo deriva dalla temporalizzazione della categoria di relazione e che porta a percepire che il mondo fenomenico si struttura in base a questa successione temporale. Quindi nella percezione non c'è la relazione necessaria oggettiva e universale che lega i due fenomeni opposti tra di loro, ovvero non c'è la legge casuale che sta all'origine del modificarsi dei fenomeni, come aveva detto Hume che aggiungeva però che questo derivava dall'abitudine ovvero dalla somma delle percezioni. Ma Kant dice questo che questo non deriverebbe mai dalla somma delle percezioni se non ci fosse già dentro di noi la possibilità di costruire uno schema trascendentale che determini la relazione di successione temporale tra la causa e l'effetto, perché noi non potremo mai stabilire questa relazione oggettiva in base al semplice reiterarsi di situazione costantemente identiche. Questo molto importante perché la differenza sta qui, il semplice fatto dice Kant che noi ci aspettiamo che da determinate nostre azioni si possano determinare determinati effetti dimostra che noi riteniamo che questa legge sia necessaria e universale, ma poiché questa necessità della legge non la deriva dall'esperienza deve essere dentro di noi, ecco perché con la analogie dell'esperienza Kant pensa di aver definitivamente risolto la problematica humniana
4.       Postulati del pensiero del pensiero empirico in generale

Però come abbiamo detto il nostro intelletto ha sì una propria spontaneità, ha sì la capacità di condizionare i fenomeni ma non ha la capacità di crearli, ovvero le nostre conoscenze e questa volontà spontanea a priori del nostro intelletto vale unicamente come capacità di unificare le rappresentazioni del mondo fenomenico, perciò di come le cose si mostrino a noi mentre e di come le cose sono in se noi non sappiamo nulla (di quale sia l'essenza delle registro non sappiamo nulla, ma di come si manifesta a me in quanto fenomeno so che si presenta seguendo determinate leggi che coincidono con quelle con le quali opera il nostro intelletto). Questo è talmente importante per Kant che chiude l'analitica trascendentale facendo riferimento a una metafora e pone questa metafora proprio all'inizio di un capitolo che si intitola “Fenomeno e noumeno” e che quindi è teso a dimostrare la distinzione tra ciò che noi chiamammo fenomeno e ciò che chiamiamo noumeno (una parola che lui conia che significa quello che non può essere visto ma che può unicamente essere pensato, ovvero l'essenza di ciò che la cosa è, ovvero ciò che starebbe dietro le cose che noi vediamo). Dio sarà una di quelle idee a cui tende la ragione che in realtà non si può negare né che esista né che non esista perché è una idea che trascende i limiti dell'esperienza e come tale è un'idea sulla quale noi non possiamo dire nulla.
Lettura “Distinzione fenomeno e noumeno”
Kant, abbandonando un linguaggio ostico, utilizza un tipo di linguaggio più comprensibile ovvero fa riferimento a una metafora. La metafora che usa Kant è quella dell'isola, il nostro intelletto è quindi come un'isola che era chiusa intorno a confini immutabili (che non si possono modificare), perché coincidono con le leggi formali e necessarie del nostro intelletto. Questa metafora però funziona in modo particolare infatti questa è un'isola circondata da banchi di ghiaccio (iceberg) e essendo un'isola ha dei limiti ben precisi e perciò è limitata (non esiste la possibilità di attraversare il confine); l'isola è chiaramente l'intelletto e sopra l'isola tutto quello che possiamo conoscere può raggiungere la verità, una verità che però ha condizionato dal fatto di trovarsi unicamente all'interno di questi confini e naturalmente questi confini sono rappresentati dal fatto che le conoscenze che si possiedono su quest'isola necessariamente derivano dall'esperienza, quindi è possibile una conoscenza universale e oggettiva ma che naturalmente riguarda l'ambito fenomenico. Solo che noi abbiamo un'altra facoltà, che è quella della ragione e una delle tendenze costitutive della ragione è quella di voler valicare i limiti dell'esperienza ovvero vuole arrivare a una conoscenza che potremmo definire di tipo metafisico (indipendente dall'esperienza), ma non ha conoscenze che riguardano il nostro modo di conoscere, ma conoscenze che riguardano i contenuti che si pongono oltre la dimensione dell'esperienza (anche le categorie sono oltre l'esperienza, ma le categorie non sono oggetti ma altresì funzioni e quindi sono qualcosa che riguarda il nostro modo di conoscere non delle conoscenze possedute); tuttavia la metafisica si illude di poter raggiungere, senza passare attraverso l'esperienza, delle conoscenze stabili e questa illusione non a caso fa riferimento ai banchi di ghiaccio, che in realtà mi sembrano terra ma a differenza di questa l’iceberg si muove. Quindi la conoscenza sull'isola è una conoscenza epistemica mentre la conoscenza della ragione cerca di raggiungere sarà sempre una conoscenza fluttuante il che vuol dire non oggettiva e quindi fallace.
La ragione quindi non riuscirà mai a trovare un'altra terra della stabilità conoscitiva ma neanche potrà mai essere abbandonata l'isola perché è costitutivo della nostra ragione porsi oltre i limiti dei sensi e vedremo che questa caratteristica costitutiva della ragione se dà esiti fallaci in campo conoscitivo saranno invece di importanza fondamentale in ambito pratico, ovvero nell'ambito dei comportamenti dell'etica e della morale.
Perciò tutto quello che abbiamo conosciuto che non deriva dall'esperienza, ovvero le categorie, in realtà non sono nient'altro che la scoperta di alcuni principi a priori che hanno il compito di organizzare l'esperienza. L’analisi che abbiamo compiuto non ci permette di conoscere cose ulteriori, però questa analisi che abbiamo compiuto è volto a stabilire cosa sta dentro la sfera della conoscenza umana e cosa ne sta fuori e soprattutto in che modo è possibile provare la legittimità di questa conoscenza, quindi se l'intelletto non è nient'altro che la nostra capacità di anticipare attraverso di schermi la forma dell'esperienza, l’intelletto in qualche modo potrà unicamente conoscere la realtà così come si presenta noi nell'esperienza, ovvero la realtà fenomenica e i fenomeni e tutto quello che non è fenomenico, ovvero il noumeno, in realtà rimane fuori da questo ambito. Ma in realtà noi possiamo avere due modi di concepire il noumeno, uno è assolutamente inutile e ci spinge una conoscenza illusoria, l'altro in realtà è utile, per quello che riguarda il problema di ciò che si può conoscere in modo scientifico. Si chiama fenomeno ciò che si presenta nell'oggetto in relazione al soggetto che va a conoscerlo, ma questa relazione dà origine ad una altra presunzione ovvero quella che questo oggetto nasconda dietro questi aspetti relativi qualcosa di non relativo e assoluto, ovvero l'essenza della suo essere (quello che è il noumeno).Ora poiché l'intelletto non possiede altro che le categorie, come concetti che ci permettono di conoscere la realtà, pensa attraverso queste categorie di poter arrivare a una conoscenza essenziale delle cose, ma naturalmente questo non è possibile perché le categorie non sono nient'altro che il modo di organizzare i fenomeni dell'esperienza. Esistono quindi due tipi di considerare il noumeno: quello positivo e quello negativo, i quali però non hanno un significato assiologico (ovvero non vuol dire che il positivo è buona il negativo è cattivo), il negativo è infatti quello che nega qualcosa mentre quello positivo è quello che afferma qualcosa, tra questi il noumeno negativo ha una utilità dal punto di vista conoscitivo, appunto perché nega la possibilità che si possa accedere oltre i limiti dell'esperienza, mentre il noumeno positivo (che rappresenta le conoscenze che si troverebbero nella sfera oltre i confini dell'intelletto) in realtà non ha un'utilità ma anzi rappresenta una tentazione illusoria di conoscere ciò che non possiamo conoscere (il noumeno positivo è quindi inconoscibile). Per quello che riguarda il noumeno negativo questo ha una importanza perché la negatività del noumeno si situa sul confine tra l'isola e il mare e quindi nega che tutto quello che si pone oltre questo confine possa in qualche modo essere oggetto di una conoscenza scientifica e inoltre ci permette di definire meglio i limiti della nostra conoscenza.

La dialettica trascendentale
Come abbiamo detto la distinzione tra fenomeno e noumeno serve a Kant per stabilire quali sono i confini dell'isola in cui si parla nell'analitica trascendentale, nella quale abbiamo scoperto una cosa ovvero che esistono principi a priori che in qualche modo garantiscono l'oggettività delle nostre conoscenze ma il nostro intelletto, pur essendo spontaneo, può solo esercitarsi sui dati che gli derivano dall'esperienza, ovvero sul mondo dei fenomeni. Ciò che eccede la realtà fenomenica eccede anche la nostra possibilità di comprensione speculativa da parte della soggetto, però come abbiamo detto noi abbiamo una facoltà, la ragione, che tende a gettarsi in questo mare e che costitutivamente cerca di trascendere i limiti dell'esperienza, perciò compito di spiegare i sofismi a cui dà luogo questo tentativo sarà proprio della dialettica trascendentale, che chiude la critica la ragion pura.
Innanzitutto dialettica è un termine negativo per Kant, ovvero la dialettica rappresenta per lui, come per Aristotele, la logica dell'apparenza, la dialettica trascendentale sarà quindi quella parte della critica della ragion pura che Kant dedicherà a cercare di rivelare i sofismi della logica trascendentale. I sofismi o falsi ragionamenti si verificano quando del tutto naturalmente la ragione cerca di avventurarsi oltre i limiti dell'esperienza, ovvero quando ritiene che sia possibile arrivare ad una idea che in qualche modo si sottragga ai vincoli del riferimento all'esperienza. Queste sono le idee trascendentali (che sono poi i risultati della dialettica) e in questo caso il termine trascendentale è usato il termine negativo ovvero viene usato nel senso più comune di trascendentale con il significato di trascendere i limiti dell'esperienza, queste emergono quando si tende fondare la nostra conoscenza non tanto sui principi immanenti (ovvero su principi che sono dentro la realtà) ma su principi trascendenti (che si sottraggono al riferimento all'esperienza), si può dire quindi che le idee trascendentali (un po' come le idee platoniche) si vogliono porre come di archetipi delle cose, ovvero come la possibilità di giungere a quella conoscenza noumenica che assolutamente è assolutamente impossibile dal punto di vista conoscitivo, mentre poi vedremo avrà un utilità dal punto di vista pratico e morale, dove Kant andrà a recuperare delle cose che ha dovuto negare nella critica la ragion pura, però le recupererà come postulati e quindi come possibilità perché dal punto di vista conoscitivo tutti i tentativi di dimostrare l'esistenza di alcune idee innate è destinato al fallimento.
La ragione quindi vuole in qualche modo cercare la totalità, va in direzione della totalità, che appunto si spossa presentare come l'essenza più propria di determinati ambiti, ovvero cerca di raggiungere l'assoluto, che coincide con questa totalità dei modi con i quali cerca di illusoriamente allargare i confini della realtà, che poi sono sostanzialmente tre:
1.       cerca di affermare un soggetto assoluto che in qualche modo si proponga come essenza di tutti i soggetti, ovvero la cosa in sé della soggettività che da sempre nella tradizione metafisica è sempre stato tradotto con il concetto di anima, quella sostanza che coincide essenzialmente con la cosa in sé del soggetto
2.       cerca di affermare il mondo come totalità di fenomeni nel quale c'è qualcosa in più che il insieme di fenomeni uno accanto all'altro, ovvero l'essenza, l'origine e la composizione del mondo
3.       e infine l'affermazione della sintesi totale di ogni cosa, dell'unione tra dimensione soggettiva e dimensione oggettiva, il fondamento unico di tutte le sostanze che normalmente è identificato con l'essenza di Dio
Ecco che quindi abbiamo identificato tre idee fondamentali della dialettica trascendentale che coincidono con le idee della metafisica di Wolff, la sua metafisica infatti era stato distinta in psicologia razionale, cosmologia razionale e teologia razionale, che appunto coincidono con l'idea di anima (totalità assoluta dei fenomeni interni e della soggettività), l'idea di un mondo (totalità assoluta dei fenomeni esterni del mondo e del mondo oggettivo) e l'idea di Dio (totalità delle totalità, fondamento di tutto ciò che esiste).
Kant cercherà di dimostrare come ognuno di questi ambiti, che per Wolff erano delle scienze metafisiche dimostrabili e contabili, in realtà si basano nell'evidenziazione del loro concetto fondamentale su dei ragionamenti fallaci, ed è in base a questi ragionamenti fallaci che nella metafisica precedente s'è potuto in qualche modo pensare di poter dimostrare queste tre idee.
Partiamo quindi dalla psicologia razionale, la quale, dice Kant, si basa su un paralogismo, ovvero uno pseudo ragionamento e quindi un sillogismo essenzialmente non valido che però ha l'apparenza di sillogismo valido (il sillogismo è un ragionamento basato su tre proposizioni una maggiore, una minore e la conclusione; il sillogismo si basa sull'posizione che in termini hanno all'interno delle preposizioni, in particolare la posizione del termine maggiore, quella del termine minore ed infine quella del termine medio; il termine maggiore ha sempre la caratteristica di essere il predicato della conclusione, il termine minore il soggetto della conclusione e il termine medio non è presente nella conclusione ma compare in entrambe le premesse).
Lettura “Il paralogismo e la psicologia razionale”
Il paralogismo e quindi un ragionamento fallace dal punto di vista logico e falso (quando la conclusione non deriva necessariamente dalle premesse), in realtà però in questo paralogismo logico ciò che diventa un elemento dirompente è la questione trascendentale, ovvero significato che assume un termine dal punto di vista trascendentale e rispetto tutto quello che è stato detto nell'analitica trascendentale. E questo ragionamento fallace ha sede nella ragione ed è ineliminabile infatti la ragione cercherà sempre di raggiungere la definizione dell'anima anche se sarà destinata costantemente al fallimento.
Il paralogismo è il seguente, che poi è un sillogismo di primo grado (dalla diversa posizione del termine medio i sillogismi si dividono in primo, soggetto e predicato, secondo, predicato e predicato, terzo, soggetto il soggetto, quarto, predicato e soggetto): premessa maggiore
“ ciò che non può essere pensato diversamente che come soggetto non esiste diversamente che come soggetto, perciò è sostanza”
Ovvero tutto ciò che viene pensato come soggetto non può esistere diversamente che come soggetto e quindi è una sostanza, che un oggetto sia una sostanza non ci piove. Premessa minore
“ ma un essere pensante considerato semplicemente come tale non può essere pensato diversamente che come soggetto”
Ovvero un essere pensante è una soggetto, come aveva detto Cartesio. Conclusione
“l’essere pensante in quanto tale è una sostanza”
Quindi l'essere pensante equivale all'anima (perché essere una sostanza equivale essere un'anima); l'errore sta nel fatto di identificare l'attività di pensiero con una sostanza, come qualcosa che coincide con un tempo determinato all'interno della realtà, che coincide con il concetto di sostanza, invece l'analitica trascendentale ha già detto che l’io penso non è una sostanza ma una facoltà è un insieme di funzioni, quindi non potremo mai fare di questa facoltà una sostanza; ecco dove sta l'errore: ritenere che il insieme di potenzialità, che coincidono con l’io penso, possa essere identificato come un soggetto quando invece sono funzioni.
Ora è chiaro che partendo da questo sofisma, concedendo l'anima come una sostanza, si pensa a qualcosa di semplice e che è immortale e immateriale che Kant aveva già dimostrato come difficilmente sostenibile già ai tempi dei “sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica”.
Stabilite che tutte le conclusioni che si possono affermare sull'anima, che se fosse sostanza non potrebbe che avere queste caratteristiche, derivano da questo paralogismo; anche tutte le conseguenze delle qualità dell'anima in quanto tali vengono meno perché prima di poter affermare che il tipo di qualità presenta l'anima come sostanza a questo punto si tratta di dimostrare l'esistenza dell'anima come tale, che non è più dimostrabile, anche perché almeno per quello che riguarda l'aspetto speculativo noi conosciamo i soggetti sostanzialmente come soggetti empirici, ovvero come fenomeni presenti nella realtà e come tali sono soggetti alla legge che regola la relazione dei fenomeni tra di loro che è quella di causa ed effetto e quindi in base a principi di tipo meccanico e corporeo.

Demolita attraverso la psicologia razionale la possibilità di dimostrare l'esistenza dell'anima Kant passa alla cosmologia razionale, ovvero alla possibilità di dimostrare l'esistenza di un mondo o l'essenza di un mondo. Innanzitutto è chiaro che bisogna partire dal presupposto che la totalità dell'esperienza non coincide un'esperienza, ovvero non si fa esperienza della totalità del mondo fenomenico in quanto tale, si fa sempre l'esperienza di porzioni del mondo e quindi nei fenomeni, quindi anch'essa si sottrae alla dimensione dell'esperienza e quindi anch'essa serbava su ragionamenti fallaci. Solo che a questo punto non ci troviamo più di fronte a una paralogismo ma a 4 coppie di antinomie della ragione, che verranno divise da Kant in due coppie di antinomie. Le prime due sono definite antinomie della ragione e sono concepite da Kant come matematiche, ovvero che riguardano la realtà del mondo nella sua costituente essenziale cioè se ha un'origine o meno e se è semplice o meno (in pratica come è fatto il mondo); le altre due coppie invece sono definite antinomie dinamiche e riguardano come i fenomeni si presentano all'interno del mondo (ovvero la contrapposizione libertà-necessità e contingenza-necessità).
C’è una importante distinzione fra queste due coppie di antinomie infatti le due antinomie matematiche sono entrambe false mentre le antinomie dinamiche sono vere e false contemporaneamente perché sono entrambe vere in ambito fenomenico ma entrambe si contraddicono a vicenda; per capire però come funziona il ragionamento di Kant bisogna sapere che le antinomie sono conflitti della ragione e sono composti da una tesi (che afferma una cosa) e da una antitesi (che afferma l'esatto contrario), Kant cercherà di dimostrare quindi come partendo da determinati presupposti si possono dimostrare entrambe e se entrambe sono dimostrabili vuol dire chiaramente che non può essercene una delle due vere e che quindi è impossibile arrivare a una dimostrazione di una delle due.
Lettura “Tesi e antitesi” (riduzione per assurdo di Zenone)
Nella tesi si cerca di dimostrare che il mondo abbia un inizio nel tempo e si è limitato nello spazio, ammettiamo quindi che il tempo non abbia inizio ma in questo caso non è possibile stabilire un prima un dopo all'interno della serie infinita di momenti e neanche un inizio e una fine, il presente quindi rappresenta la fine di tutti questi momenti ma se il tempo non ha inizio nel tempo significa che è infinito e se è finito non ha mai fine, ora se il tempo che ci ha preceduto non ha mai fine come potremo noi essere giunti a questo momento che rappresenta la fine di tutti i momenti precedenti, chiaramente questa paradossale perché se fosse vero noi saremmo passati attraverso infiniti momenti.
Se invece ammettiamo che il mondo sia infinito nello spazio e la mondo consisterebbe con una infinità di cose simultaneamente esistenti, però per avere una quantità deve necessariamente essere limitata, però poterlo quantificare o facciamo la sintesi delle parti o facciamo la sintesi completa, però essendo infinito e non possiamo fare questa sintesi perché non avrebbe mai termine e perciò non sarebbe possibile misurare qualsiasi cosa all'interno dello spazio e quindi non esisterebbe lo stesso spazio. Se lo spazio fosse infinito non si potrebbe quindi più pensare a uno spazio limitato e questo naturalmente è paradossale.
Nella antitesi invece bisogno dimostrare che il mondo è infinito nel tempo e infinito nello spazio. Se ci fosse un inizio del mondo significa che ci sarà un tempo precedente a questo inizio, ma prima è una categoria temporale e quindi non potrei mai realizzare una categoria temporale per definire una tempo vuoto che è privo di qualsiasi categoria temporale, quindi il tempo voto non può esistere perché qualsiasi tempo deve essere definito attraverso categorie temporali e quindi il tempo è limitato.
Se invece il mondo fosse finito nello spazio come per il tempo dovrebbe trovarsi in uno spazio vuoto che non è limitato, quindi bisognerebbe concepire una relazione tra lo spazio e lo spazio vuoto ma poiché lo spazio vuoto non esiste e non è niente non si può concepire neanche questa relazione e quindi il mondo è infinito anche nello spazio; inoltre come aveva dimostrato Zenone lo spazio è il infinitamente divisibile.

In realtà però le antinomie sono quattro e lo stesso tipo di ragionamento per assurdo Kant lo utilizza per le altre antinomie per dimostrare l'assoluta indimostrabilità a delle due:
1.       il secondo conflitto della regione riguarda se il mondo è costitutivamente semplice o composto, la tesi dice che ogni sostanza del mondo è costituito da parti semplici e non esiste nessun luogo se non il semplice o ciò che ne è composto, ovvero che parte dal presupposto che affinché ci sia un composto questo composto deve essere per forza composto da una somma di parti, ora la somma di parti o parte da un'unità o non può essere concepita perché altrimenti non si arriverà dal composto in quanto tale, quindi all'inizio della realtà ci devono essere unità semplici. L’antitesi dice il contrario ovvero che nessuna cosa nel mondo è costituita da parti semplici e in essa non esiste nessun luogo semplice perché è un aggregato e rappresenta un composto nel senso che ha necessariamente una estensione e per questo una estensione può essere suddivisa e quindi significa che è un composto, perciò non posso concepire nessuna cosa semplice perché una cosa semplice è una cosa indivisa.
2.       La terza è la quarta antinomia fanno riferimento alla rapporto necessità-libertà e alla rapporto esistenza di un essere necessario-inesistenza di un essere necessario, che naturalmente fanno riferimento al concetto di libertà e al concetto di Dio.
La tesi dice “nel mondo c'è qualcosa che rappresenta una causa libera non causato che si pone all'origine del determinismo casuale”, ovvero la necessità che è tipica della relazione di causa ed effetto, che domina il mondo dei fenomeni, non può che originassi da una causa perché altrimenti ci sarebbe un ricorso all'infinito, quindi si deve fare riferimento a una causa che non ha causato ma che è causa di se stessa e se è causa sui è libera. L’antitesi “nel mondo non esiste una causa libera ma tutto nel mondo è determinato in base alla necessità del rapporto causa ed effetto”, l'antitesi (che riguarda un approccio fisico, ecco perché abbiamo detto che l'attesa è sempre vera nel mondo noumenico mentre l'antitesi è sempre vera in da quello fenomenico) quindi dice che non è concepibile una causa libera perché o questa causa libera e all'interno delle serie tra cause ed effetti nel mondo e quindi soggiace alle stesse necessità che riguardano il mondo dei fenomeni, perciò anch'essa non può essere libera ma deve essere causata, oppure è esterna alla mondo fenomenico, ma se è esterna al mondo fenomenico come può qualcosa di esterno e quindi eterogeneo a agire sul mondo fenomenico? chiaramente è impossibile e quindi non posso concepire l'essenza di una casa libera.
3.       Il quarto conflitto dice nella tesi: “ nel mondo c'è qualcosa che o come sua parte o come sua causa è un essere assolutamente necessario”, mentre l'antitesi dice: “ nel mondo non esiste nessun essere assolutamente necessario, né nel mondo ne al di fuori di esso”; poiché questo argomento verrà trattato nella teologia razionale andiamo quindi a parlare della dimostrazione dell'esistenza di Dio e andiamo a vedere perché per Kant risulta assolutamente impossibile giustificare l'esistenza di Dio, né a priori né a posteriori; però dire che non è possibile provare di senza di Dio non vuole dire che non è possibile dimostrare l’esistenza di Dio, quindi nella teologia razionale Kant non si occupa della questione dell'esistenza o della non esistenza di Dio ma si occupa, come sempre, della questione relativa al modo di conoscere l'esistenza di Dio e naturalmente, essendo anche questa una idea dialettica e quindi illusoria, cerca di dimostrare come sia impossibile speculativamente dimostrare l'esistenza di Dio.
Ora cosa è Dio? Kant dice che in una realtà più che di idea trascendentale bisognerebbe parlare di ideale trascendentale perché Dio è un ideale, ovvero un modello che trascende l'orizzonte umano e che rappresenta la sostanza di ogni realtà e di ogni perfezione, quello che i filosofi hanno sempre chiamato ens realissimus, ovvero l'ente realismo, quell'ente che ha più dignità ontologica rispetto agli altri. Questo ideale di una realtà, cerca di dimostrare Kant, nasce dalla ragione dell'uomo e nasce nel modo di considerare di tendere all’assoluto che è proprio della ragione umana, quindi noi non possiamo affermare nulla per quello che riguarda la sua presenza o meno nella realtà. Per giustificare questa sua asserzione Kant utilizza l'espediente di smontare tutte le prove che erano state usate per giustificare l'esistenza di Dio, ora come sappiamo queste prove si dividono in due grandi campi ovvero le prove a priori (o ontologica o anselmiana) e le prove a posteriori. Ora per Kant le prove a posteriori si dividono in due grandi categorie infatti divide le cinque vie di San Tommaso, ci sono quelle che Kant definisce prova cosmologica (che poi sono il nucleo essenziale delle cinque vie) e la prova fisico-teologica (o teleologica), che riguarda il concetto di finalità del creato (ovvero il fatto che vediamo che la realtà sembra muoversi in un determinato ordine e quindi quest'ordine ci fa presumere che esista un ordinatore).
Però per Kant è di fondamentale importanza smontare la prova a priori perché le altre, che presumono di basarsi sull'esperienza, in una realtà si fondono anche loro su una implicita assunzione della prova a priori e vedremo perché.
Lettura “Critica alla prova ontologica”
La prova ontologica si basa sul concetto di essere perfettissimo è l'unico concetto nel quale la non esistenza di questo concetto porterebbe una contraddizione, ma in realtà noi sappiamo perché per Kant è contraddittorio pensare possibile un essere che deve presentare determinate caratteristiche possa comportare necessariamente una realtà di queste possibilità, infatti per quello che riguarda i principi puri dell'intelletto che riguardano i pensieri modali, che una cosa è pensare un essere possibile e un'altra è pensare un essere reale, infatti un essere possibile è quello che soddisfa le condizioni formali dell'esistenza (ovvero che non afferma nulla di contraddittorio) mentre un essere reale è quello che soddisfa anche le cause materiali dell'esistenza e il passaggio dal possibile al materiale non è un passaggio che determina l'utilizzo di un predicato, ovvero l'esistenza non è un predicato, ma è la posizione dell'oggetto concretamente nella realtà; cosa che Kant dimostra anche risottolineando quell'aspetto secondo il quale il verbo essere può essere utilizzato in due modi (come copula o come significato esistenziale); quindi non essendo l'esistenza un predicato non aggiunge nulla a quel concetto e quindi se non aggiunge nulla quel concetto io posso benissimo pensare a un ente realismo che possiedo tutte quelle caratteristiche senza che però esso esista nella realtà, perché quelle esistenti non è qualcosa di più rispetto all'altro ma è qualcosa di diverso, ovvero che uno è esistente e l'altro no, ma sono esattamente uguali come caratteristiche costitutive perché la somma delle predicazioni non muta in quanto l'esistenza non altera tale somma delle predicazioni.
Da un punto di vista logico l'essere è una copula di un verbo di giudizio per esempio “il cancellino è grigio” è una predicazione che attribuisce una caratteristica al cancellino ma “il cancellino è” non attribuisce nessun tipo di caratteristica, quindi il reale non contiene nulla di più della semplicemente possibile, quindi se questo è vero vuol dire che quando io penso al cancellino penso che esso abbia determinate caratteristiche, il cancellino che esiste non possiede nulla di più di queste caratteristiche quindi dall'essere possibile ad essere reale non c'è differenza dal punto di vista del insieme delle caratteristiche costituenti, l'unica differenza è che uno c'è dell'altro no. Cento euro reali non contengono quindi nulla di più di cento euro possibili, infatti quando pensiamo alla somma necessaria per comprare una determinata cosa quella somma è esattamente identica a quella che utilizziamo realmente per comprarlo perché se non prenderemo i cento euro e non sapremo neanche cosa prendere; quindi riteniamo che € 100 possibili e € 100 reali in realtà sono identici l'unica differenza è che i primi non esistono mentre il secondo di esistono, ma indiscutibile che il valore sia lo stesso. Infatti se io ti presto € 100 il ritorno è ancora possibile, però quei € 100 possibili corrispondono ai € 100 reali che ti ho dato, infatti se ci fosse una distinzione tu non sapresti quanto dovresti restituirmi e io non saprei neanche quanto tu mi restituirai, il fatto che io sappia esattamente quanto tu mi restituirai significa che tra il possibile e il reale da un punto di vista costitutivo non c'è alcuna differenza.

Distrutta la prova ontologica Kant si dedica distruggere le altre prove, ovvero la prova cosmologica, che si basa essenzialmente sulla differenza tra contingente e necessario ovvero poiché nel mondo dei fenomeni tutto è contingente, in quanto può essere ma anche non essere e nulla in sé è necessario se non la relazione di causa ed effetto, poiché le cose contingenti sono etero causate (causato da qualcos'altro), poiché non è possibile concepire un universo all'infinito nelle cause, devo concepire all'inizio una causa prima non causato, che è quello che tutti chiamano Dio. Il problema sta nel fatto che non si riesce a capire come la causa sui, assolutamente svincolato dalla relazione necessaria causa ed effetto, possa intervenire in quanto eterogenea sulla relazione di causa ed effetto. Ma il problema più grave è che anche questa prova in realtà si basa sulla prova ontologica infatti è viziata dal fatto che si attribuisce la necessità ontologica a un essere perfettissimo, al quale non può che essere esistente e in un certo senso la stessa prova vale per l'ultima prova fisico-ontologica, anche se quest'ultima tregua di un problema a Kant perché questa cosa del dualismo continua ad rimanere un problema aperto, perché in realtà sembra vero che ogni cosa presente nella realtà si muovono verso la propria perfezione o che tutto sia sostanzialmente ordinato e che abbia uno scopo razionale. Ora se esiste una regola non può esistere un ordinatore e quindi non può esistere un essere superiore assolutamente perfetto che quantomeno compone l'armonia della natura e del mondo. Questa è una prova convincente che è stato utilizzato anche dagli amici illuministi di Kant, però quello che non funziona è che parte dall'ordine considerando l'ordine del mondo, ovvero l'ordine naturale, ma immediatamente si eleva ad un ordine sovrannaturale, senza tener conto che l'ordine del mondo potrebbe essere benissimo figlio della natura stessa o quantomeno potrebbe essere un ordine e una perfezione apparente o imposta dal nostro modo di guardare la realtà, ma poi soprattutto parte dal presupposto che naturalmente questo Dio non rappresenta solo l'ordine interno ma anche l’esistenza e che sia quindi causata dell'esistenza del mondo, ma a causa dell'esistenza del mondo l'avevamo già negato e soprattutto anch'essa si basa sul presupposto che debba necessariamente esistere un essere perfettissimo e quindi sulla prova ontologica. Infatti anch’essa stabilisce che l'ordine contingente del mondo si richiama a ad un ordine superiore e quindi ad un essere che è creatore del mondo, colui che dà l'esistenza al mondo, e che quindi ha tra queste sue caratteristiche anche quella della perfezione, ma essere perfettissimo significa necessariamente esistente perché è perfettissimo e quindi nuovamente alla prova ontologica che era già stata confutata.
Kant quindi non ha dimostrato né che Dio esiste né che non esiste, ma ha dimostrato che è impossibile dimostrare speculativamente l'esistenza di Dio, ed è una cosa abbastanza normale perché altrimenti se non fosse così nelle varie religioni non esisterebbe la fede, che significa fiducia nell'esistenza.

Con questo si chiude la dialettica trascendentale e ha dimostrato come le idee trascendentali siano in realtà delle idee illusorie, però non significa che queste idee siano inutili né tantomeno dannose significa solamente che sono inconsistenti, sono idee che ci ingannano la possibilità di raggiungere la verità su questioni che trascendono i limiti dell'esperienza, ma come vedremo Kant attribuisce alle idee trascendentali un ruolo importante, che appunto, come vedremo, il ruolo di avere una utilità non determinativa per ciò che riguarda la costituzione la conoscenza dei concetti ma regolativa per quello che riguarda il modo di aspirare alla conoscenza dei concetti.
Lettura “L’uso regolativo delle idee trascendentali”
Da una parte la dialettica trascendentale afferma quello che non era stato affermato nell'analitica ovvero che non si può trascendere l’ambito dell'esperienza per arrivare a una conoscenza certa, perché la conoscenza certa è solo la conoscenza dei fenomeni, ma ci impartisce un'altra lezione su come si muove la nostra ispirazione alla conoscenza e infatti se consideriamo le idee trascendentali come costitutive nel senso che ci fanno l'oggetto specifico in alquanto contenuto oggettivo della conoscenza questo è illusorio perché sono solamente dialettici, però hanno invece un uso regolativo vantaggioso e imprescindibile, queste idee ci permettono infatti di costruire un punto immaginario della nostra conoscenza che non rappresenta una conoscenza ma rappresenta una sorta di luogo a cui tende tutta la conoscenza (tende alla perfezione e all'ampliamento verso l'assoluto, anche se non riuscirà mai a raggiungerlo) e questo è un elemento imprescindibile del nostro modo di conoscere la realtà, anzi di soggiornare nella realtà.
Uno degli scopi della conoscenza è quello di arrivare a una conoscenza di tipo sistematico e questa spinta è proprio la tendenza che si origina in ogni uomo nella ragione, in quella volontà della ragione di concepire seguendo la logica del “come se” le nostre conoscenze, come se fossero riferite una totalità psicologica globale (l'anima) come se riguardassero una totalità dei fenomeni (inteso come esteso del mondo), come se potessero arrivare alla giustificazione della concezione di senso in tutto (?). Questo spinta è di fondamentale importanza, potremmo anche dire che è ciò che rappresenta l'essenza stessa del moderno, ovvero il ruolo che l'uomo s'è ritagliato all'interno della modernità, quello di dominatore del mondo, ma una dominatore del mondo che con Kant si rende conto dei propri limiti ma che cerca comunque di arrivare sempre un po' più avanti e questo è l'uso regolativo delle idee trascendentali è proprio quello di spingere sempre le nostre conoscenze un passo più avanti e di concepirle appunto secondo un ordine sistematico che le colleghi di tutte.

In realtà la religione significativa per un'altra questione, ma per un'altra questione che esce dall'ambito speculativo e conoscitivo a cui è dedicata la critica la ragion pura e ci introduce in un altro ambito che è appunto l'ambito della morale o pratico, a cui Kant dedicherà due opere.
Quindi se noi guardiamo il mondo ci accorgiamo che è composto da fenomeni, che noi possiamo conoscere ed organizzare, ed i fenomeni si relazionano tra di loro secondo la relazione causa ed effetto, in cui la causa è antecedente rispetto all'effetto e che essenzialmente si basa sul fatto che da cause simili si produrranno effetti simili perché appunto il rapporto è una rapporto di tipo necessario, infatti per Kant tutto si muove nel mondo dei fenomeni in base al fatto che un fenomeno agisce sull'altro e quindi necessariamente se io spingo al banco questo si sposterà in avanti. Già da questo esempio si capisce che non abbiamo un approccio solamente conoscitivo con il mondo ma abbiamo anche un altro di stare nella realtà, che è appunto quello di agire ovvero quello di spostare o di non spostare il banco.
Ora spostare o non spostare il banco naturalmente non è una questione di conoscenza ma è una questione di volontà, quindi noi non siamo solamente animali giudicanti, ma siamo anche animali agenti, che in base alla loro volontà compiono determinati comportamenti all'interno della realtà; ma la volontà, che è la forma che la ragione assume all'interno dell'ambito pratico, presuppone necessariamente la libertà e quindi la possibilità di scegliere. Quindi così come la ragione naufragava, per quello che ne riguarda l'aspetto conoscitivo, nella sua presunzione di libertà, invece la ragione in quanto volontà raggiunge proprio nella libertà che è propria proprio l'elemento essenziale, quindi la ragione a entrambi questi ambiti, da una parte quello conoscitivo (che è destinato al fallimento perché la dialettica la spinge a superare i limiti dell'esperienza) e dall'altra vi è quello pratico (che riguarda la ragione come volontà che invece è caratterizzato proprio dalla libertà).
Basandosi su questa verità Kant arriva a delineare la duplicità dell'uomo stesso infatti l'uomo a questo punto si può considerare secondo due punti di vista: l'uomo in quanto fenomeno è come tutti gli altri fenomeni caratterizzato dalla relazione necessaria e poi la relazione causa ed effetto, quindi come fenomeno l'uomo è necessitato ma l'uomo che è anche libero come dimostra la sua attività allora lo possiamo considerare noumenicamente, ovvero nella sua essenza, come libero, noi non conosciamo l'uomo in quanto noumeno però possiamo presupporre, perché questo è necessario postularlo affinché noi si possa agire volontariamente all'interno della realtà, che un elemento essenziale (e quindi noumenico, una cosa in sé dell'uomo) consista nella libertà, per Kant noi ci giudichiamo sempre in modo consapevole.
Kant affronta questa questione in due opere: la “Fondazione alla metafisica dei costumi” (1785) e la “Critica alla ragion pratica” (1791); in realtà apparentemente non ci sono grandi distinzioni nelle due opere ma in realtà questa somiglianza è apparente, infatti mentre nella prima Kant parte dalle situazioni pratiche, ovvero dalle scelte concrete, per giungere a determinare principi (in modo quasi sintetico), nella critica alla ragion pratica parte invece dai principi (o postulati) per vedere che cosa consegue dalla deduzione di tali principi.
Innanzitutto potremmo dire che poiché razionale per Kant vuol dire far riferimento a una legge, così come il mondo dei fenomeni è sottoposto a leggi naturali anche il mondo della prassi e della volontà è sottoposto a un altro tipo di leggi, quelle che Kant chiamerà leggi morali, ovvero una legge che impone all'uomo di utilizzare liberamente la propria volontà. Questo sembra così ossimorico, ma in realtà Kant ha ben chiaro cosa intende, infatti imporre all'uomo di essere libero vuol dire agire obbedendo a quei principi che sono a priori, ovvero quei principi che non possono trovare una giustificazione all'interno del mondo dell'esperienza e quindi non possono trovare giustificazione in un qualche interesse concreto da parte dell'uomo stesso, ovvero Kant vuole tornare una fase pura, dove per pura si intende a priori, fondata solamente da presupposti che derivano all'uomo dalla sua ragione (e quindi dalla sua volontà) e che non gli sono imposti dall'esterno. Essenzialmente per Kant agire moralmente significa agire in modo autonomo, elemento essenziale della moralità e quindi quello di conservare sempre questa autonomia (ovvero che si da solo le proprie norme); la legge morale e quindi impone di non obbedire a imperativi eterotropi, ovvero quelli la cui origine deriva dall'esterno e non sono propri della volontà.
Questo esclude qualsiasi tipo di interesse particolare dall'azione morale in quanto tale naturalmente si fa capire che un'azione morale per essere tale deve muoversi in direzione dell'universalità, ovvero deve essere un'azione che quando io la compio impegna non solamente me ma vorrei che impegnasse anche tutti gli altri, allora si capisce perché per Kant in ogni azione che compiamo non ci deve essere alcun elemento di interesse perché naturalmente l'interesse è soggettivo e quindi non potrà mai essere universo, ovvero quando io agisco non devo agire in direzione di nessuno scopo preciso e particolare anzi io non dovrei neanche agire in direzione di uno scopo perché io dovrei agire in obbedienza a quelli che sono il principio di razionalità che compone la legge morale.
A questo proposito potremmo dire che la bontà di un'azione morale non risiede per Kant nella bontà del risultato ottenuto, ecco perché ritiene di aver compiuto anche all'interno dell'orizzonte pratico una rivoluzione copernicana, infatti secondo Kant lui ha cambiato nuovamente l'ordine della movimento infatti le leggi morali precedenti dicevano che agire moralmente significava conformarsi alla natura, quindi stabilivano prima che cos'è il bene (appunto agire secondo natura) e poi dicevano che la volontà doveva muoversi in vista del raggiungimento di questo bene, perciò prima c'era il bene e poi c'era il movimento della volontà per raggiungere questo bene. Kant dice invece che è vero esattamente il contrario e quindi si parte dalla volontà, che significa libertà (e quindi conformarsi alla legge morale), e poi casomai rimanendo fedele a questo tipo di modello, si realizza il bene. Non è la volontà che va in direzione del bene ma il bene che va in direzione della volontà in quanto si adegua al rispetto della volontà e della libertà (della legge morale). Infatti se agire significa obbedire alla legge morale significa che la nostra azione deve sempre in qualche modo risponderà del imperativi che ci inducono a comportarci in un certo modo, come vedremo per Kant possono essere di due tipi:
1.       Vi sono gli imperativi di ipotetici, ovvero che sono imperativi dell'ipotesi che noi si voleva raggiungere determinati risultati e quindi comandano solamente se, per esempio studia se vuoi essere promosso, questo è un imperativo nella misura in cui uno come ipotesi si ponga quella di essere promosso
2.       Vi sono poi gli imperativi categorici, che funzionano indipendentemente da qualsiasi condizionamento esterno
Lettura “Foglio dove c’è scritto 2”
L’imperativo ipotetico è quello che comanda di agire in un certo modo se si vuole raggiungere un determinato scopo, che non c'è nulla di male, ma questo tipo di azioni che possono essere sia buono e che cattive, utili o dannose per l'individuo, non sono azioni immorali ma non rientrano nell'ambito della morale, sono quelle che Kant chiama “principi dell'abilità e consigli della prudenza”, infatti se voglio costruire per esempio un tavolo devo seguire determinati principi e regole dell'abilità di costruire un tavolo o se voglio essere promosso devo seguire un consiglio della prudenza ovvero quello di studiare.
Ma queste non sono imperativi che in qualche modo hanno una rilevanza morale infatti costringono la mia azione non a corrispondere alla legge razionale del dovere in se stessa ma spingono la mia azione a compiere determinati obiettivi o a determinate inclinazioni (ovvero il piacere e le inclinazioni che mi spingono verso determinate cose, ovvero se io faccio una cosa che sembra splendida ma che in qualche modo determinata dal fatto che io inclino verso quella cosa in realtà questo tipo di azione non è lo stesso una azione morale perché è condizionata dai miei piaceri e dalle mie inclinazioni).
Bisogna però capire perché l'azione morale è un imperativo, perché corrisponde al “tu devi” e perché la nostra volontà ci comanda determinati comportamenti? perché ritiene che noi possiamo non essere automaticamente conformi alla nostra razionalità in base al fatto che l'uomo è l'unico ente che può essere morale perché è insieme razionalità e passionalità e quindi nel linguaggio kantiano l'uomo è contemporaneamente libertà del fenomeno e quindi in quanto fenomeno è condizionato dalle proprie passioni. Se l'uomo fosse uguale a Dio che è pura razionalità corrisponderebbe in modo immediato alla propria morale e non avrebbe bisogno di un comando, invece l'uomo, che è anche passionalità, funziona attraverso il comando attraverso l'imperativo; perciò Dio è amorale infatti il suo comportamento e il suo modo coincidono con il modo di essere, l'uomo no in quanto può essere morale e immorale: morale quando si conforma alla sua libertà ed è immorale quando non si conforma e va in direzione della propria passionalità.

Lettura
Come abbiamo detto l'inclinazione ci porta a fare conformare al dovere mentre ciò che conta è fare le cose per dovere, hanno un diverso riconoscimento morale ovvero se io faccio le cose conformemente al dovere  seguo di conseguenza le mie inclinazioni fa degli esempi, quello dell'altruismo e quello della conservazione della vita, però dice Kant questi comportamenti non sono automaticamente morali e infatti per quello che riguarda la conservazione della vita l'uomo non compie questo gesto per dovere ma per propria inclinazione e quindi non lo fa obbedendo a un imperativo categorico ma lo fa per propria inclinazione. Differente è il caso dell'uomo che era portato verso la morte perché per esempio non ha più voglia di vivere a quel punto relazione autenticamente morale perché lui si attende al dovere e va contro le sue inclinazioni.
Per Kant la differenza tra “inclinazione al dovere” e “per dovere” è che le due cose hanno un diverso riconoscimento morale. Per la prima pone l'esempio del mantenimento della vita e dell'altruismo, cose di per se buone, che vengono fatte per l'inclinazione a un determinato dovere. Per la seconda pone l'esempio di un uomo che non vuole più vivere ma per dovere mantiene integra la sua vita. Kant dice che neanche fare del bene agli altri è morale in se ma sono pre-morali perché va incontro al volere un proprio bene.
Schiller dice che ci sono due epigrammi: lo scrupolo di coscienza e la decisione. La persona dall'anima bella è quella dove si riesce a coniugare esigenza morale e felicità. Se si fa qualcosa che ci rende felici, questo in un certo senso sarebbe, secondo il pensiero kantiano, svalutato dal punto di vista morale. Allora Schiller dice paradossalmente che il pensiero kantiano sarebbe assurdo dove non dovremmo neanche amare gli uomini ma odiarli tutti, così ogni comportamento che va in direzione dell'umanità sarebbe morale.
Così si da un peso notevole alla questione dei contenuti dell'azione. Schiller vuole trovare la persona che sappia collegare il proprio sentimento all'azione morale. Kant da la sua risposta, ovvero che in realtà l'istinto, la passione immediata, non c'entra niente con la morale ma lo accosta al sublime. Nell'azione morale il sublime è rappresentato dalla assoluta mancanza di contenuti dell'azione stessa e perciò non risponde a nessun imperativo categorico. L'uomo che vuole agire moralmente e come se si dovesse estraniare dal corso della realtà e da lontano, senza essere coinvolto, agisca in direzione dell'universalità.
“lettura”
La caratteristica del imperativo ipotetico è mettere a posto la mente quando mi trovo davanti ad una situazione, esempio: se hai un esame tra giugno e luglio l'imperativo ipotetico ti dirà “vedi di studiare se vuoi passare l'esame”;quindi il periodo ipotetico conosce la propria formulazione, e dimostra la sua dipendenza dall'esperienza. Diverso è invece x l'imperativo categorico: contiene nulla cioè nel senso che contiene solamente la forma della legge in quanto tale. L'imperativo categorico contiene solamente la traduzione della massima secondo la forma della legge.
La massima è una traduzione concreta della situazione dell'imperativo categorico e aiuterà l'uomo a conformarsi alla legge del disinteresse dell'universalità. Agisci secondo quella massima che tu vuoi che divenga una legge universale. Perciò prima di agire dobbiamo pensare se vogliamo che l'azione compiuta diventi universale e che obbligasse tutti ad agire allo stesso modo. Se però io mi trovassi nell'esigenza di mentire, non vorrei che ciò diventasse una legge universale.
Per Kant l'importante e che l'imperativo categorico coincida con una forma di universalità.
Per Kant non è importante che l'azione raggiunga lo scopo ma che parta da un intenzione buona e sarebbe comunque moralmente degna.
Ma se dovessimo mentire per salvare qualcuno, come faremmo? Se decido di mentire è come se permettessi a tutti di mentire, ma se non mentissi farei del male a quella persona. In questo caso non si dice niente cosicchè non tradiamo nessun ideale dei precedenti e rimaniamo sinceri.
Ad esempio un corpo non può sottrarsi alla forza di gravità e perciò la nostra azione diventerebbe universale e a questa si adeguerebbero tutti.
Kant da tre forme dell'imperativo categorico. La seconda riguarda la questione dello scopo, dove ogni azione ha uno scopo e bisogna vedere se esiste uno scopo che può tentare all'universale. La terza riguarda l'importanza della bontà.
Solo chi possiede la razionalità può agire dal punto di vista morale perciò gli enti razionali rappresentano uno scopo, un fine e non un mezzo della legge morale. L'imperativo pratico è la traduzione in prassi dell'imperativo categorico ed il rispetto della razionalità dell'uomo in quanto tale. Non si potrà mai agire in modo tale da usare un altro ente razionale come strumento per i propri fini. Il fatto di muoversi in direzione di uno scopo vuol dire conformarsi come scopo che realizza la forma che assume la razionalità dal punto di vista pratico che è quello della bontà.
Il fatto di ritenere che la volontà nel suo operare si presenti come oggettiva e coincida così in tutti i soggetti ed è universalmente legislatrice. Una volontà che voglia realizzare dal punto di vista pratico l'universalità ed oggettività delle leggi.

L’ultima cosa che bisogna dire sulla morale Kantiane è che la critica la ragion pratica si divide come tutte le critiche Kantiane in un'analitica e una dialettica e la dialettica chiaramente trascendentale e riaffronta gli stessi argomenti che erano stati affrontati dalla dialettica trascendentale nella critica la ragion pura, ovvero quella questione legata a quelle dei trascendentali che coincidono essenzialmente con l'idea di anima, di mondo e di Dio, che erano state affrontate nella critica alla ragion pura. Ma mentre nella critica alla ragion pura era stato dimostrato dall'assoluta impossibilità di dimostrare dal punto di vista conoscitivo e logico l'esistenza di queste dei trascendentali (perché tutte le dimostrazioni svolte dalla metafisica precedente si posavano su ragionamenti fallaci), invece da un punto di vista pratico quelle stesse idee devono essere necessariamente postulate per dare un senso all'agire morale. Kant parte dal fatto che dal punto di vista pratico l'agire dell'uomo è un agire che non deve essere determinato da uno scopo (come sappiamo) proprio perché deve corrispondere a questo dovere (alla “tu devi” morale e al rispetto della formalità della legge) è proprio per questo le dica Kantiane è un'etica estremamente rigorosa in cui non è possibile giungere a quella connessione, che invece Schiller proponeva, tra virtù e felicità infatti essere virtuosi e morali fornire non tener conto della propria felicità nel momento stesso in cui compriamo l'azione perché se non è teniamo conto di quello non facciamo le cose per dovere ma al massimo la facciamo conformemente al dovere. Ora poiché ogni azione ogni agire di per sé è intenzionato, ovvero tenderà a realizzare qualcosa, allora significa che anche l'agire morale dovrà attendere alla realizzazione del bene, non è determinato del suo agire dal bene ma dovrà tendere alla realizzazione del bene anzi ogni agire morale tende a un bene che potremmo definire come il sommo bene, intendendo per sommo bene non va bene contingente ma un bene che possa rappresentare quella congiunzione tra virtù e felicità che un bene sempre vuole realizzare. Ora ecco perché bisogna necessariamente postulate e quindi concepire come un'esigenza per la nostra azione pratica quelle idee che avevamo negato, ovvero per esempio l'idea di anima, perché noi sappiamo che questa connessione tra virtù e felicità non la possiamo realizzare nella vita terrena, ecco che quindi abbiamo bisogno di un tempo infinito per poter realizzare in un'altra vita questa congruenza tra virtù e felicità, ecco che quindi devo postulare un'anima immortale che sopravvivono a quel corpo che mi ha ancora alla realtà fenomenica per poter realizzare questa congruenza.
Ma ecco che necessariamente abbiamo già introdotto l'apostolo azione dell'idea di Dio perché il sommo bene non è nient'altro che qualcosa che può essere concepito e realizzato solamente da un ente sommamente perfetto e che qualche modo coincida con quella volontà divina, ecco che quindi il sommo bene mi costringe a postulare, affinché sia possibile anche solo concepirlo, l'esistenza di un ente superiore.
Questo non vuol dire che ho dimostrato l'esistenza di Dio né che ho dimostrato l'esistenza di un'anima vuol dire soltanto che se ne agire morale vuole avere senso deve necessariamente postulate l'esistenza di queste due idee trascendentale, ovvero poiché io agisco e poiché il mio agire dovrebbe realizzare un bene e poiché questo bene deve avere nella concezione del sommo bene dovrebbe realizzare la mia felicità, allora devo postulare queste due idee; così come necessariamente devo postulare l'esistenza all'interno del mondo di qualcosa dal punto di vista dimostrativo che avevo dovuto escludere, ovvero l'esistenza della libertà, anzi potremmo dire che la libertà è essenzialmente il presupposto affinché si compia un'azione morale. Concepire l'uomo come essenzialmente caratterizzato dal fatto di essere un ente morale presuppone necessariamente come postulato essenziale quello della libertà: agire significa scegliere e scegliere significa essere liberi.

La critica alla ragion pratica si chiude con una delle poche pagine famose di Kant caratterizzato da una dolcezza letteraria nel tentativo di spiegare qual è la condizione dell'uomo che si può desumere dalla critica della ragion pura della e della ragion pratica.
Lettura pag. 669 “L’universo e la morale”
Kant dice che due cose riempono l'anima dell'uomo di venerazione e di ammirazione: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me, perché in qualche modo ci presentano due aspetti apparentemente contrapposti dell'uomo, ovvero l'uomo come frammento materiale all'interno di una realtà fenomenica che lo trascende, di cui sembrerebbe un aspetto insignificante, e invece l'uomo che scopre dentro di sé la presenza di una legge che lo rende assolutamente diverso da tutti gli enti che sono nella natura, punto la libertà. La coscienza della mia esistenza poi mi porta immediatamente a fare esperienza del cielo stellato e dell'esperienza della sciarpa e quindi della volontà, la coscienza inoltre mi fa avvertire come uno degli elementi che è connesso, perché tutti i fenomeni sono connessi tra di loro in base alla relazione di causa ed effetto, all'interno di questa realtà naturale. Tuttavia l’infinitezza del cielo stellato è solo apparente, la vera infinitezza si trova dentro ognuno di noi perché è caratterizzata appunto dalla libertà.
Mentre la prima condizione, ovvero quella che mi fa essere sotto questo cielo stellato mi riconduce a quella che è la caratteristica dell'uomo in quanto fenomeno, ovvero quella di essere animale, la volontà e la legge morale in me mi presentano la mia ecceità e la mia originalità, che è propriamente quella di essere l'animale libero, ovvero l'animale che vuole, che scende che si sottrae a questa struttura meramente deterministica e causale che era la legge che governa il mondo fenomenico.

Come vediamo questa lettura è anche importante perché ci riconduce alla terza critica perché ci presenta qual’era il punto a cui si era giunti con le prime due, ovvero l'evidenziazione nella critica della ragion pura di un mondo, che per l'uomo è il mondo dell'esperienza, e che quindi la comprensione di questo mondo dell'esperienza come necessariamente necessitato (perché è governato dalla relazione di causa effetto); quindi il mondo della natura come mondo della necessità e il mondo dell'interiorità dell'individuo come caratterizzato dalla libertà.
Solo che queste due realtà si presentavano come assolutamente eterogenee e il compito della terza critica sarà quello di gettare sostanzialmente un ponte tra questi due mondi e quindi di poter in qualche modo giustificare anche all'interno del mondo della natura una certa libertà. Ora poiché questo non è possibile dimostrarla logicamente, attraverso giudizi di natura logica, ecco che si tratta di scoprire se è esistono giudizi differenti rispetto quelli logici che possono in qualche modo permettere di poter pensare anche alla natura come libera. Questo sarà possibile quando oltre alla facoltà dell'intelletto, oltre alla facoltà della ragione bisognerà scoprire se esiste un'altra facoltà ovvero quella facoltà che appunto nella critica della facoltà di giudicare Kant inserisce. Questa facoltà di giudicare chiaramente sarà una facoltà di giudicare in modo diverso rispetto e giudizi che io esprimevo all'interno della critica della ragion pura, ovvero il giudizi logici; sarà una capacità di giudicare il mondo non solamente attraverso le categorie logiche del pensiero ma in un altro modo. E naturalmente Kant parte da quelle che sono le mie esperienze nel mondo naturale, per esempio quando incontro un oggetto della natura: ora quando incontro un oggetto della natura,  che il tipo di giudizio produco nella mia relazione con questo evento? questo fatto si presenta come qualcosa che posso organizzare conoscitivamente attraverso le forme dell'intuizione pura o attraverso i concetti e le categorie che mi portano pensare, ovvero siamo proprio sicuri che il primo giudizio che io esprimo nei confronti di quella cosa sia relativo alla volontà di conoscerla, cioè immediatamente io ho un giudizio di un altro tipo ovvero quello che nasce dal sentimento di piacere o di dispiacere che questo evento determina in me. Ora è chiaro che questo tipo di giudizio è un giudizio differente rispetto quello logico con il quale conosco la realtà, è un giudizio che non costituisce l'oggetto dell'esperienza in quanto tale (perché il giudizio lo cerco come sappiamo determina il modo di rappresentarsi dei fenomeni e la creazione del concetto, perché tutte e due il mio concetto e il fenomeno si unificano in modo tale da corrispondere alle categorie dell'intelletto, e quindi sono determinate da questa corrispondenza con le categorie dell'intelletto). Invece questo giudizio è particolare, innanzitutto perché parte dal particolare e non parte dalle categorie universali e inoltre il giudizio di realtà riflette sull'effetto che l'oggetto determina all'interno della mia anima anzi riflettere su quale tipo di relazione esiste tra il concetto di quell'oggetto e la mia immaginazione che in qualche modo produce l'immagine riflessa dentro di me di tale oggetto.
Ecco perché tali giudizi vengono distinti da Kant e vengono chiamati giudizi riflettenti. Questo giudizio particolare che sorge da questa relazione un po' particolare che noi ne abbiamo con la natura sono giudizi riflettenti perché in realtà riflettono sul sentimento che l'oggetto in quanto tale determina in me.
Lettura pag 671 “Il giudizio riflettente”
Vediamo come Kant presenta il giudizio riflettente.
I concetti della natura, le categorie della critica della ragion pura, posavano sulla legislazione dell'intelletto mentre la legislazione della ragione venne trattato nella critica alla ragion pratica. Si tratta quindi di vedere qual è il principio che governa questa nuova particolare facoltà di giudicare e stabilire qual è il territorio su cui questo principio sul quale effettivamente si può esercitare; il giudizio è la capacità di predicare qualcosa di una determinata realtà, ovvero di predicare l'universale di qualcosa di particolare, ora ci sono due modi di stabilire questa relazione tra universale e particolare:
1.       se è dato primo l'universale, ovvero il concetto e la categoria, all’interno poi del quale si insinua il particolare ecco che allora giudizio è definito da Kant giudizio determinante, perché parte dal universale delle categorie e determina i nostri concetti particolari riferendosi alla funzione di queste categorie, quindi determina il concetto e determina il modo di presentarsi degli oggetti in quanto fenomeni a me.
2.       ma c'è anche un'altra strada, ovvero quelle inversa che quindi parte dal particolare, dal singolo oggetto che si presentano a me e vedere se è possibile da questo modo altro stabilire se ci sono dei principi che in qualche modo governano questo modo di sentire e di giudicare; quindi ecco che capiamo che a differenza di giudizi determinanti, che sono quelli della critica della ragion pura, i giudizi riflettenti partono dal particolare e arrivano l'universale
Il giudizio determinante tra l’altro sussume il particolare e quindi fa rientrare il particolare dentro quelle categorie universali che governano il mio modo di ragionare e costruisce il concetto a partire da questa attività unificante. Quindi c'è già una legislazione dell'intelletto che governa questa attività di giudizio determinante è la legge della legislazione dell’intelletto, ovvero quella che si conforma le categorie che trova la propria riflessione nei principi puri dell'intelletto.
Diverso è per questa nuova facoltà giudicante, qui non c'è una legge e siamo noi a scoprire se esista, ovvero dobbiamo scoprire se esiste una legge che permetta ai singoli soggetti di poter pensare, sentire e giudicare in modo uniforme l'oggetto che si presentano (ecco perché si parte dal particolare per arrivare all'universale). Ora poiché le leggi che governano l'intelletto si applicano solamente a una dimensione del presentarsi della natura, che è quella del presentarsi nella natura come oggetto possibile di una intuizione empirica, ovvero come fenomeno, ma poiché la natura si presenta molti altri modi (mostrandosi come bella, desiderabile, come caratterizzata da una armonia, eccetera) bisogna vedere se questi altri modi empirici che alla natura di darsi, poiché qui non abbiamo una legge universale che di governi, sia possibile ricondurli ad un unico principio (o legge o dispositivo) che guida questa mia particolare facoltà di giudicare, che è quella che riguarda il sentimento in quanto tale.
Detto questo leggiamo che di fronte a un fenomeno che ci presenta la natura della piacere che noi possiamo provare e di due tipi secondo Kant:
1.       ovvero il piacere che ne possiamo provare dell'oggetto in sé, e questo riguarderà un certo tipo di giudizio riflettente, che è il giudizio di gusto o giudizio estetico, che ci porterà ad affermare la bellezza o la bruttezza di questo oggetto in particolare (se ci procurerà piacere sarà bello se ci procurerà dispiacere sarà brutto)
2.       oppure noi possiamo considerare il fenomeno, ovvero l'oggetto in sé, come legato tutti gli altri oggetti e elementi naturali e vedere se in questo legame che caratterizza la natura sia possibile leggere una armonia di una visita della natura, ovvero scoprire se è possibile concepire una natura la quale non si muova unicamente in base a presupposti deterministici ma che abbia in sé anche un fine, ovvero che vado in direzione di un fine e quindi in un certo senso sia libera. Il giudizio che va a stabilire questo aspetto relativo alla natura in genere è il giudizio riflettente che Kant ti amo giudizio teleologico, che deriva dal termine greco teleos che significa scopo o fine, e quindi il giudizio teleologico e un giudizio finalistico.
Quindi da critica del giudizio, che riguarda i giudizi riflettenti, concepisce due possibilità di giudizi riflettenti e quindi sarà divisa in due, ovvero il giudizio di gusto o estetico e il giudizio teleologico o finalistico.
Ora come abbiamo visto scoprire una legge e scoprire un universale vuol dire scoprire qualcosa di comune e di oggettivo, ma qui ci troviamo di fronte a giudizi che come sappiamo hanno un'origine soggettiva, ovvero che dipendono dall'effetto che un determinato oggetto riflette nell'ambito del soggetto, ecco perché Kant arriva ad affermare che giudizi riflettenti sono giudizi soggettivamente universali. Ma questo ossimorico perché come si può concepire qualcosa che allo stesso tempo è soggettivo ed universale? Bisogna partire dal fatto che quando bisogna scoprire una legge dobbiamo presumere che quando io dico che una cosa bella tutti gli altri soggetti concordino con questo, bisogna quindi capire cosa stabilisce questa universalità. Inoltre la bellezza e il giudizio di bellezza ma nel soggetto (anche qui rivoluzione copernicana), il bello si afferma quindi come giudizio universale del soggetto e riguarderà quel dispositivo che determina la creazione del giudizio, il quale sarà universale perché comune e identico in tutti i soggetti, ovvero tutti soggetti arrivano alla formulazione di un giudizio riflettente secondo un dispositivo che identico in tutti quanti, una dispositivo che Kant traduce nel fatto che si viene a determinare nel momento della giudizio estetico o teleologico uno libero gioco tra l'intelletto e l'immaginazione. Un gioco che riguardano da una parte i concetti che mi faccio di un determinato fenomeno e dall'altra riguardino l'immaginazione con cui io mi costruisco l'immagine di questo oggetto, ovvero in base questo libero gioco, che è un gioco di cui il protagonista è l’immaginazione, si viene a determinare il giudizio di gusto (o teleologico). Le regole e in qualche modo condizionano questo libero gioco tra l'intelletto e l'immaginazione sono regole universali, nel senso che appartengono a tutti soggetti e che sono identiche in tutti i soggetti, ecco perché è soggettivamente universale.

Abbiamo detto che una volta delineato questo principio bisogna capire come questo si applica nei due diversi tipi di giudizio, partiamo quindi da giudizio di gusto che quello che suscita maggiore perplessità, infatti noi siamo riteniamo che il giudizio che riguarda la bellezza la bruttezza di una cosa sia assolutamente soggettivo, invece per Kant il giudizio di gusto nel momento stesso in cui un soggetto esprime il giudizio di gusto a una pretesa universale perché in qualche modo corrispondono a determinate caratteristiche, che in qualche modo riguardano quel piacere che io provo nei confronti di un determinato oggetto.
Ad esempio la prima caratteristica è quella che dice che il piacere che determina il giudizio di gusto scevro da ogni interesse, ovvero deve essere disinteressato.
Lettura pag 672 “Il piacere che determina il giudizio di gusto è scevro da ogni interesse”
L’interesse è quello che riguarda il tipo di piacere che noi proviamo perché desideriamo qualcosa (dalla propensione e dalla inclinazione verso qualcosa), ovvero quando esiste uno propensione soggettiva o particolare nei confronti di un determinato oggetto, evento o fenomeno. Però quando noi formuliamo il giudizio di gusto, ovvero un giudizio riflettente, che naturalmente come tutti i giudizi tende all'università, riteniamo che questo giudizio non sia minimamente condizionato dall'importanza per l'interesse all'esistenza di quell'elemento, per una ragione per l'altra, non ciò che riguarda la nostra vita, ovvero dobbiamo in un certo senso elevarci a una situazione di assoluta neutralità e disinteresse nei confronti dell'oggetto in quanto tale.
Io posso avere qualsiasi tipo di relazione con l'oggetto in quanto tale ma quando mi si chiede di formulare un giudizio di gusto in realtà mi si chiede qualcos'altro, ovvero. Mi si chiede di giudicare in un modo assolutamente disinteressato del determinato oggetto, ora è chiaro che se io provo questo giudizio tenendo conto di questo mio disinteresse il mio giudizio si può presentare come un giudizio estetico universale. Ma laddove io mi lasci condizionare da una determinata propensione nei confronti dell'oggetto il mio giudizio non è più una giudizio di gusto ma è un giudizio di riguarda la dimensione del piacevole, per esempio io posso dire che una cosa mi piace mentre quando io dico una cosa bella pretendo al consenso universale, ecco perché difficilmente può essere definito un giudizio di gusto la mia affermazione “ quella determinata cosa bella”, perché naturalmente l'interesse nei confronti di quella cosa rende assolutamente soggettivo quel mio giudizio. Questo vuol dire che in qualunque modo io formulo un giudizio questo va in direzione del piacevole perché naturalmente questo giudizio è profondamente condizionato dalla mia relazione con un certo; io potrei esser sicuro di aver formulato un giudizio effettivamente di gusto qualora fossi assolutamente certo di aver assolutamente formulato questo giudizio nel disinteresse assoluto verso l'oggetto stesso.
Ma poiché anche giudizi di gusto, come tutti i giudizi che riguardano la critica devono andare in direzione della cura, è chiaro che un giudizio nel quale si mescolano interesse non è un giudizio puro ma è un giudizio che è condizionato dall'interesse verso quell'oggetto.
Quindi abbiamo capito della prima caratteristica del giudizio di gusto è quella del disinteresse, Kant ho in me identificato il due, la seconda quella dell'universalità, ovvero il giudizio di gusto è quello che in qualche modo afferma un'universalità senza concetti (ovvero vuole essere universale ma senza ricavare questo universale dal concetto e quindi dalle categorie e quindi un'universalità che appunto si richiama all’identico dispositivo che riguarda la facoltà di giudicare che ognuno di noi ha), una universalità non concettuale e quindi determinante; ovvero quando io dico che è bello pretendo che tu ti concordino con me ma non perché mi riferisco determinati concetti determinanti ma perché ritengo che tutti coloro che si trovassero nella mia identica situazione, e quindi non fossero condizionati da qualche interesse particolare, arriverebbero rosse sul tipo di giudizio. Se io dico che una è bella pretendo l'universalità del consenso e nel caso io trovarsi persone che non sono in accordo come posso ritenere che queste persone sono condizionate nella formulazione del giudizio da determinate cose che determinano un interesse particolare nella formulazione del giudizio.
Ma non abbiamo ancora scoperto che cosa il quand'una cosa non possiamo definire bella, ecco che qui arriviamo alla terza caratteristica del bello, ovvero è bello ciò che in qualche modo si presenta secondo una finalità senza scopo. Per finalità senza scopo si intende il fatto che scopro una finalità dell'oggetto senza considerare lo scopo per il quale l'oggetto è nella realtà, quindi in per esempio un vaso e bello non perché permette di conservare bene i fiori, non è bello perché realizzo pienamente e con successo solo scopo; ciò che determina la bellezza del giudizio di gusto non è la bellezza che Kant definisce aderens, ovvero che aderisce all’oggetto e che riguarda lo scopo che io ne faccio nella realtà, ma è una bellezza libera; allora questa finalità che trovo nel oggetto consisterà nella finalità che coincide con l'armonia delle forme, come se le forme di quel soggetto fossero talmente armoniose da rappresentare il fine dell'oggetto in quanto oggetto estetico, ovvero l'armonia formale dell'oggetto in qualche modo si presenta come qualcosa che ha un senso e una finalità. Ed ecco che allora capisco anche quando prima mi richiamavo al giudizio su altre persone, infatti posso dire che una donna è bella quando riconosco, al di là del ruolo che può avere all'interno della realtà, una finalità che non riguarda quello che è e quello che fa ma una finalità delle forme, cioè un'armonia delle forme in quanto tali (questo è anche un richiamo a una tradizione essenzialmente neoclassica, infatti nel critica della giudizio si muove su questi due canali, ovvero una poetica neoclassica e l'inizio di una tradizione romantica). Questa relativa alla finalità senza scopo e all'armonia delle forme nel giudizio di gusto fa ancora riferimento a un paradigma neoclassico.

In realtà Kant, che è anche un po' romantico, dice che esiste un altro bello, un bello assolutamente disarmonico, che in realtà non può neanche propriamente definirsi bello ma che in qualche modo può anch’esso determinare fondamentalmente un sentimento di piacere e quindi un giudizio estetico.
Questo è quello che Kant chiama, per contrapporlo a sentimento del bello, sentimento del sublime, il sublime che in realtà pur essendo anch'esso essenzialmente un giudizio sintetico di gusto presenta caratteristiche differenti rispetto al bello.
Uno degli esempi più importanti di sublime e il piantato sul mare di nebbia, che è un esempio emblematico di esperienza del sublime kantiano, sublime che appunto, proprio perché a differenza del ballo non nasce dall'armonia, presenta caratteristiche differenti rispetto al bello.
Lettura “Distinzione tra sublime e bello”
Il bello e il sublime concorrano per il fatto che entrambi piacciono in sé e non per altro e sono entrambi frutto di un giudizio riflettente, tuttavia mentre il bello riguarda oggetti che gli presentano come limitati formalmente (e quindi dall'armonia delle forme, che è essenzialmente limitatezza, fanno scaturire la loro bellezza), invece il sublime scaturisce dall'assoluta assenza o sproporzione nelle forme, ovvero nasce dall’illimitatezza. Mentre il bello in qualche modo riguarda dal libero gioco della nostra immaginazione proprio un concetto dell'intelletto, il sublime sembra che qualcuno modo si produca dal libero gioco della nostra immaginazione un concetto prodotto dalla ragione perché la ragione tende alla totalità, all'assoluto e all'infinito. Ecco perché il sublime piace tanto e romantici, perché il sublime è più facile e più esplicito il riferimento all'esperienza dell'assoluto, che per i romantici è un elemento fondamentale, il nostro animo tende all'assoluto e all'infinito.
Poi mentre nel bello si fa riferimento alla dimensione della qualità, nel sublime si fa riferimento alla categoria della quantità.
Però per Kant assumono particolare valore in questa distinzione i concetti di diretto-indiretto e giocoso- serio, infatti mentre il bello nasce direttamente come esperienza che fa emergere in modo immediato un'intensificazione delle funzioni vitali e della vita, quanto una cosa bella in un certo senso immediatamente sollecita le mie funzioni vitali, il sublime si compie in modo indiretto ovvero mediato, si compone di due momenti: una primo momento nel quale il sublime immediatamente atterrisce e spaventa, in cui l'uomo si sgomenta, ma da questo immediato dispiacere può in una base a una elaborazione immediata e successiva di questo dispiacere arriva provare un piacere (che rappresentano una nuova intensificazione della vita).
Però Kant distingue due tipi di sublime, quello che lui chiama sublime matematico e dinamico (stesse categorie avevamo trovato nella distinzione delle antinomie), in questo caso matematico riguarda l’illimitatamente grande (come il cielo stellato sopra di noi) che sembra eccedere la nostra possibilità di comprensione; però è vero che dentro di noi abbiamo un'idea che è infinitamente superiore, che è appunto l'idea di infinito, la quale si permette di contenere ciò che è illimitatamente grande. E proprio quando noi capiamo che per certi versi siamo ancora più grandi di qualsiasi cosa perché siamo liberi, ecco che subentra il piacere dopo lo sgomento iniziale e dopo la diminuzione della nostra potenzialità di vita.
La stesso meccanismo riguarda il sublime dinamico, ovvero quello che ha a che fare con l’infinitamente potente, qualcosa che spaventa e non una sgomenta per la sua grandezza ma che spaventa per la sua terribilità (esempio un terremoto una tempesta); ci sono infatti delle esplosioni della natura e la cui potenza sembra infinitamente superiore alla nostra possibilità di controllo, ma anche qui Kant dice che il semplice fatto che noi possiamo attraverso le nostre scelte controllate, dominate o fronteggiare questi eventi così potenti e con l'idea (di infinito) che subentra è quella che in qualche modo mi fa, anche di fronte a questa potenza, avvertire un certo piacere.
Il sublime e quindi è un quello che più direttamente si determina per questa tensione all'infinito e all'assoluto proprio perché nasce dall'idea dell'infinito, che abbiamo in noi come libertà.

Ma finora abbiamo sempre parlato di fenomeni naturali e quindi abbiamo parlato del bello natura (che per Kant è il bello essenzialmente), però non abbiamo parlato di quello che nell'esperienza del giudizio estetico che noi studiamo da sempre, che è il bello artistico, al quale Kant dedica alcune pagine. Bisogna quindi definire la differenza tra bello artistico e bello naturale; però bisogna partire dal presupposto che il lavello naturale è superiore al bello artistico perché il lavello naturale è quello che maggiormente rispecchia quelle proporzioni razionali che naturalmente si affermano nella natura (ovvero la bellezza di un fiore presenta un'armonia che per Kant nessun artista riuscirà mai a riprodurre), anche dall'artistico nasce dallo stesso tipo di giudizio determinante, ma innanzitutto dove nasce nell'arte il bello? come si produce nell'arte il bello?
Innanzitutto il bello nell'arte, dice Kant, nasce come opera dell'ingegno, infatti non tutti sono artisti e neanche le artisti sono sempre artisti, infatti è riconducibile al bello artistico solamente quello che nasce come opera del genio (genio come colui che in qualche modo producendo l'opera d'arte più di tutti coglie l'essenza dell'assoluto, infatti per i romantici sono l'arte ci permette di cogliere l'assoluto).
Quindi il genio è colui che nella sua produzione noi possiamo riprodurre quello che è il bello naturale.
Lettura “L’arte bella è arte del genio”
Innanzitutto non esiste l'individuo geniale ma esiste l'individuo che possiede una facoltà e non lo possiede sempre, che ha la facoltà del genio. Il genio quindi è colui che in qualche modo riesce a imporre nell'opera d'arte le stesse regole, che riguardano la questione relativa all'armonia delle forme, che sono proprio della natura, ovvero il genio è quella facoltà che riesce a guardare la realtà della natura il modo diverso cogliendo in essa le regole che esprime l'armonia della natura e sono poi riprodurre queste regole anche all'interno della costruzione artistica. Però scoprire le regole della natura significa anche ad esempio saper cogliere il modo con il quale la natura si presenta al soggetto, ovvero come la natura impressiona soggetto che la guarda non con occhi naturalistici ma in base all'effetto che essa ha su di lui, il genio è colui che sa strappare alla natura le proprie leggi.

Abbiamo detto che il genio non è un individuo non è una facoltà, un talento che alcune persone possiedo e che non sempre possiedono, quindi bisogna vedere cosa caratterizza l'opera artistica in quanto tale. Di fatto ogni arte presuppone delle regole che si traducono per Kant in due leggi fondamentali, in due caratteristiche particolari che l'opera d'arte deve necessariamente avere per essere definita opera d'arte. Innanzitutto bisogna dire che essendo un giudizio riflettente, sebbene necessariamente con forti delle regole, però non sono regole che si basano sul concetto, ovvero l'artista non è uno scienziato; infatti mentre la scienza è essenzialmente apparato conoscitivo della realtà, secondo le categorie della logica che sono proprie della critica alla ragion pura, funziona per concetti la no, è un giudizio riflettente e quindi non funziona per concetti, non funziona secondo le categorie della logica ma funziona in base questa riflessione che il piacere provoca quando diventa soggetto in quanto tale.
Perciò il primo elemento che deve essere presente perché un'opera d'arte sia definita in questo modo è l'originalità, nel senso proprio letterale del termine, come modello che si pone all'origine di un certo modo di produrre; ma poiché l'originalità può dare inizio a opere stravaganti deve essere contemporaneamente originale ma funzionare allo stesso tempo come modello, qualcosa in cui gli altri artisti si possono ispirare.
Tuttavia il genio non può dimostrare scientificamente come è arrivato alla produzione artistica, non può stabilire in base ai quali protocolli e in base a quali regole ha compiuto l'opera d'arte, le applica ma poiché non sono regole che in qualche modo riguardano i concetti non le può dimostrare. Da qui deriva un quarto elemento che è molto importante, ovvero quello che dice che la natura non dà attraverso la genialità le regole della scienza perché la genialità è qualcosa che riguarda il modo in cui la natura dalle regole all'artista che produce un'opera bella, che ha le caratteristiche dell'originalità e del modello.

Stabilita quindi qual è l'essenza dell'arte bella si tratta di vedere il secondo giudizio che può essere formulato da questa facoltà di giudicare che ci permette di formare dei giudizi riflettenti. Abbiamo parlato del giudizio di gusto che riguarda il bello, il sublime, il bello artistico e il bello naturale ma come abbiamo detto il secondo giudizio riflettente è il giudizio teleologico, che in realtà non riguarda l'oggetto o il fenomeno in quanto tale ma riguarda piuttosto l'insieme dei fenomeni all'interno del quale si scopre come la natura sembra essere caratterizzata nel suo manifestarsi e nella suo muoversi e non solamente da leggi puramente meccanica (che corrispondono essenzialmente al modello fisico dominante, quello newtoniano), ma che si muove anche per leggi diverse, leggi che sembrano dimostrare un cambiamento di determinato piuttosto da un fine da raggiungere e non da processi di tipo materiale e meccanico di azione e reazione di un corpo su un altro corpo, è proprio nuovamente anche in questo caso si tratta di vedere ciò che avevamo necessariamente escluso dal punto di vista logico, ovvero la possibilità di dimostrare la finalità e quindi un essere necessario che rappresenta il fine della natura (che era stato negato nelle antinomie della ragione), sia invece possibile in qualche modo postularlo, congetturarlo o pensarlo (anche se non dimostrato) in base al giudizio teleologico e in base a questo tipo di sentimento. Potremmo dire che è come se noi di fronte a certe manifestazioni della natura considerate nel insieme totale della natura sentissimo nuovamente questo sentimento di piacere nel vedere che la natura sembra muoversi in una direzione della perfezione e quindi in direzione di una finalità.
E facile, soprattutto pensando agli sviluppi che le scienze hanno in questo periodo e in particolare la biologia, capire come dalla osservazione del biologico che in qualche modo si possa rompere il dispositivo meccanici si può che dobbiamo necessariamente affermare dal punto di vista concettuale nella critica alla ragion pura, perché l’organismo vivente non sembra essere determinato solo da relazioni causa ed effetto sembra muoversi ed evolversi secondo un processo di libertà, e lo porta a raggiungere il suo fine che per tutti gli elementi è la riproduzione, e come se tutto si muovesse in direzione di questa perfezione che è riprodurre e affermare se stessi, ovvero ecco che questa finalità, che possiamo comprendere maniera intellettiva, possiamo sentire in modo riflettente attraverso questo tipo di giudizio riflettente. E’ come se fosse una pre-compressione di qualcosa che dal punto di vista intellettuale non possiamo dimostrare, come se noi sentissimo la natura in quanto tale perché come abbiamo visto la libertà è proprio di quegli agenti morali (gli uomini) che si muovono in direzione della scelta e quindi in direzione della realizzazione di un fine. Poiché sia per alcuni enti che sono all'interno del mondo naturale sia per quello che riguarda il organizzarsi della natura all'interno del suo fluire, sia possibile individuare questa finalità anche all'interno della natura ecco che allora anche nella natura possiamo pensare questa finalità. E potremo dire che anche il giudizio teleologico, come giudizio riflettente, ha la stessa funzione che avevano le idee trascendentali, come sappiamo non avevano un uso costitutivo della conoscenza ma avevano un uso regolativo e anche il giudizio teleologico funziona come principio euristico, ovvero un principio che spinge in direzione della verità, che in realtà non è neanche una verità perché non è dimostrabile ma che in qualche modo ci spinge alla comprensione globale della natura in quanto tale, la natura che si presenta come tutto non come un insieme slegato di relazione paratattiche di causa ed effetto legati uno all'altro ma come un tutto e questo pensare la natura con un tutto ci spinge ad andare avanti nella ricerca per arrivare una comprensione globale.

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