giovedì 15 settembre 2011

Bergson

A partire da queste posizioni si situa la riflessione di Bergson. Bergson è molto importante perché come vedremo è il teorico del cosiddetto flusso di coscienza, però anche lui inizialmente si muove all'interno del pensiero positivista, anzi si muove all'interno di quel positivismo evoluzionistico che trova in Spenser il massimo esponente (che è quello che traduce in salsa filosofica l'evoluzionismo), il quale aveva asserito che tutto nella realtà si basasse su questa legge della selezione naturale e del più adatto. Ma sebbene si muova sin dall'inizio all'interno di questa concezione evoluzionista ben presto inizia a concepire un evoluzionismo differente rispetto a quello rigido di Darwin, che si muoveva secondo rigide leggi e necessità natura.
Il primo momento in cui si stacca da questo paradigma scientifico è quando, per ottenere l'abilitazione al dottorato, scrive un testo che si intitola “Il luogo in Aristotele attraverso i paradossi zenoniani” (luogo in Aristotele ha due significati differenti: il luogo naturale, che è il luogo al quale gli elementi tendono nel loro percorso verticale che per gli elementi leggeri si trova in alto e per quelli pesanti si trova in basso, poi c'è il concetto di luogo come spazio occupato da un determinato corpo che coincide con lo spazio che un oggetto occupa nella realtà). Il concetto di spazio di Aristotele, come spazio impenetrabile, come sappiamo fa riferimento a un concetto di spazio diverso da quello di Zenone, perché Zenone parla di uno spazio sostanzialmente divisibile all'infinito e come sappiamo ancora oggi rappresentano un quesito non di facile risoluzione. Proprio qui secondo Bergson si situa quella che è la nuova concezione non tanto dello spazio quanto del tempo propria del positivismo, ovvero il fatto che anche il tempo incomincia ad essere considerato alla stessa stregua dello spazio. La scienza e il positivismo non fanno altro che tradurre il tempo, che è una categoria interna, secondo le stesse caratteristiche che sono proprie dello spazio, che invece è una categoria esterna. Quindi non è un caso che la prima opera di Bergson, che s'intitola “Saggio sui dati immediati della coscienza”, rappresenta una riflessione proprio sul concetto di tempo affrontata non più attraverso il metodo della scienza naturale ma attraverso una metodo che Bergson chiama “psicologico-metafisico”, che è l'unico in grado di cogliere la vera essenza del tempo e quindi di permetterci di ristabilire quel dualismo che era stato concepito già all'origine della filosofia moderna e sul quale la filosofia moderna si era affermata, ovvero il dualismo cartesiano.
La filosofia positivista ha quindi cercato di risolvere questa dicotomia tra res cogitans e res extensa traducendo quella che era la categoria fondamentale della res cogitans, ovvero il tempo, con le caratteristiche proprie di quella che invece la categoria fondamentale della res extensa, ovvero lo spazio.
Nel primo capitolo dei saggi Bergson individua l'errore della scienza (che ha portato alla assolutizzazione del pensiero scientifico) di innalzare a grandezza estensiva quello che invece per Berson è un'intensità pura, ovvero trattare come una grandezza estensiva la vita psichica e di coscienza dell'individuo che invece è essenzialmente intensità e non può essere interpretata in base ai presupposti della scienza naturale che invece si occupa dei fatti esterni. Quindi nuovamente si stabilisce questa netta distinzione tra l'attività della coscienza (ovvero la dimensione cogitans) e la realtà esterna, mentre una è estensione l'altra è intensione, quindi si accrescono in modo diverso mentre l'estensione si estende per ampliamento l'intensione si estende per differenza qualitativa (perché gli atti di coscienza sono caratterizzati da una distinzione di tipo qualitativo e non quantitativo). Questo deriva anche dalla natura degli oggetti stessi, perché gli oggetti del mondo esterno sono caratterizzati da un certo tipo di grandezza numerabile, che da origine a una molteplicità di unità nettamente distinte e separate le une dalle altre (perché caratteristica degli oggetti esterni è quella dell'impenetrabilità e infatti due oggetti non possono occupare uno stesso spazio); diversa natura hanno invece gli atti di coscienza, che appunto non si misurano attraverso grandezze geometriche e tra essi non c’è mai stata omogeneità (mentre i fatti esterni hanno sempre la stessa natura) perché non ce n'è uno identico all'altro (perché per esempio se leggo due sonetti non posso avere una stessa emozione perché se leggo prima uno la lettura del secondo sarà influenzata dalla lettura del primo, ma anche perché noi siamo sempre diversi) e infine a differenza degli oggetti esterni gli atti di coscienza sono compenetrabili, ovvero agiscono gli uni sugli altri. Proprio perché è tutto fuso è impossibile distinguere nettamente all'interno dell'attività della nostra coscienza, perché ogni attività di coscienza deriva da quelle che vi erano prima e a sua volta condizionerà quelle che vengono dopo; da qui nasce una concezione del tempo artificiale, che è quella della scienza, che isola di istanti del tempo, anche se il tempo è un flusso (mentre il tempo della scienza è un tempo paratattico perché formato da istanti di tempo che si susseguono, il tempo della coscienza è un tempo che dura), da questa concezione si origina flusso di coscienza. In questo tempo che dura le acque si sono mischiate come in un fiume, nel senso che è impossibile separare un atto di coscienza dall'altro, quindi il tempo reale (che il tempo della nostra coscienza) è un tempo che dura, mentre l'artificialità del tempo è quello della scienza.
Quindi durata è questa continua e sempre sfuggente mobilità che caratterizza la vita perché la vita è slancio vitale (elan).

Mentre la vita, l’organismo e l'attività di coscienza, che rappresenta l'elemento vitale, è caratterizzata dalla mobilità i fatti fisici invece sono privi di tale mobilità, perché i fatti fisici sono corpi che si stagliano all'interno di uno spazio occupando sempre quel determinato luogo.
Uno degli errori che secondo Bergson è compiuto dalla scienza e del sapere scientifico è proprio questa tendenza costitutiva che la scienza ha a spazializzare il tempo, cioè divide il tempo (che in realtà è durata e quindi è un flusso assolutamente indivisibile) in segmenti misurabili a cui viene poi applicato un segno linguistico o logico (in entrambi i casi un segno convenzionale), che serve a dimostrare questa separazione artificiale che viene compiuta sul tempo. Questa tendenza che è tipica della scienza, ovvero quella di isolare le cose ed applicare a queste cose delle etichette logico-simboliche non è ritenuta da Bergson qualcosa di negativo, infatti lui crede che sia qualcosa di più adeguato rispetto all'idealismo romantico e a quell'infinito apparentemente incomprensibile che era la sostanza e lo spirito per gli idealisti, ma nel positivismo c'è comunque un elemento negativo che è quello di vendere a credere che questo modo di guardare e di comprendere la realtà sia applicabile a tutti gli eventi e a tutti i fatti, un atteggiamento che quindi è pervasivo perché vuole legare ad un unico modello interpretativo (che è il paradigma scientifico) tutto ciò che avviene nella realtà. Questo è una cosa negativa perché ci sono alcuni eventi, come i fatti psichici (che ci riconducono alla vera essenza del tempo), che non sono riconducibili a questo schema perché l'essenza del tempo non è misurabile in quanto la sua essenza è quella del perdurare, del trascorrere, del mutare, dell'essere irreversibile; mentre la scienza, per scopo pratico, tende a considerare le parti del tempo come giustapposte, ovvero unite l'une all'altre ma nello stesso tempo distinte e separate le une dalle altre, in un modo tale che sia possibile muoversi in avanti ed indietro considerando il tempo come qualcosa che si scandisce in giorni, ore, minuti e secondi. Questa è soltanto una funzione del tempo, in quanto è un po' come la concezione del movimento all'interno del cinema, infatti noi sappiamo che il movimento è determinato dal movimento della pellicola che però è composta da istantanee.
Paradossalmente in tal modo si isola elementi che non durano e che sono immobili per giustificare l'essenza del tempo, mentre il tempo vero invece è, come diceva Sant'Agostino, un'esperienza dell'anima e della coscienza.
Lettura “Saggio sui dati immediati della coscienza”
Innanzitutto il tempo, essendo un flusso, così come avviene in un fiume nel quale le acque sono mischiate fra di loro, i fatti passati sono presenti anche nei fatti di coscienza attuali, quindi c’è compenetrazione e non divisione, il tempo non ha soluzione di continuità.
Per spiegare le caratteristiche proprie del tempo della coscienza, del tempo che dura e del tempo vero Bergson utilizza una metafora, che è la metafora della melodia. Ciò che caratterizza la melodia è il fatto che le note in realtà non si succedono l'una all'altra come se fossero una lunga catena di note separate, infatti la melodia nasce dalla compenetrazione che queste note, che apparentemente sembrano distribuirsi nel tempo, hanno tra di loro. La melodia si ha quindi quando una nota funziona come parte del tutto, così come la melodia non corrisponde alle note che sono scritte sullo spartito, il tempo della coscienza non corrisponde al tempo che viene misurato attraverso parti separate, perché quello di isolare le parti del tempo è qualcosa di possibile solo artificialmente solamente attraverso un'azione del pensiero che è capace di attrarre, ovvero quella capacità del pensiero di tirare fuori qualcosa che invece nel tempo non c'è.
Quindi questa capacità di astrarre è proprio quella dello scienziato che utilizza questo sistema, perché questo ha una funzionalità pratica (perché permette di andare avanti e indietro nel tempo) perché permette di spaziare nel tempo; in questo modo il tempo diventa spazio perché così si può spaziare nel tempo, perché così si può rendere reversibile ciò che in realtà è irreversibile per la coscienza. Ma questo significa puntare verso un elemento tipico del pensiero occidentale e del pensiero scientifico, ovvero quello che va in direzione della certezza, quello di puntare di più sul factum che sul fieri (sul fatto piuttosto che sul processo), ma in realtà il tempo della coscienza, che poi è l'unico tempo reale, è essenzialmente qualcosa che è in fieri (che si costruisce e che si fa).
Che questa tendenza della scienza voglia applicarsi ad ogni ambito lo dimostra, secondo Bergson, una delle concezioni cardine del positivismo e in particolare del positivismo britannico, ovvero quello che fa riferimento al cosiddetto “associazionismo psicologico”, ovvero quella concezione che ritiene che l’io sia un fascio di percezioni e che quindi analizza la psiche così come si analizza lo spazio esterno, ma non si rende conto che la coscienza ha una natura diversa perché è caratterizzata dalla compenetrazione e dalla non isolabilità, infatti l'elemento predittivo tipico della scienza non è possibile affermarlo nella coscienza perché non sarò mai più quello che ero prima, infatti le esperienze della coscienza si compenetrano, perché le mie esperienze pregresse condizionano quello che io sono adesso (la coscienza è novità assoluta e per questo è in fieri).

Il primo momento in cui l'intelletto ha incominciato a interpretare la realtà attraverso questo elemento di isolamento è stato quando l'uomo ha inventato il linguaggio, perché il linguaggio è il tentativo di isolare le cose, infatti secondo Bergson il linguaggio non corrisponde alla realtà perché è convenzionale ed artificiale, perciò è come una crosta interposta tra l'io e la realtà (perché al continuo fluttuare che rappresenta l'essenza del tempo e del reale sostituisce una ricomposizione artificiale attraverso nomi, simboli e segni). Il linguaggio è lo strumento per eccellenza dell'intelletto perché l'intelletto, per poter comprendere in modo adeguato alla realtà, ha bisogno di scegliere e selezionare e quindi ha bisogno di dare un nome o un segno che gli permetta di ricondursi ad ogni avvenimento. Ma questo corrisponde a una concezione che appiattisce la realtà perché compito del linguaggio e della logica è quello di uniformare la realtà, perché ciò che uniforme è più facilmente comprensibile, mentre invece la realtà è essenzialmente differenza e cambiamento (non esistono cose ed eventi uguali gli uni agli altri); è un modo di guardare la realtà un po' come quello del turista che entra nel museo e invece di guardare le opere d'arte guarda la guida, perché pensa che la guida rappresenti la spiegazione, ma la guida non è l'opera d'arte e in questo si perde la relazione con l'essenza, ovvero l'opera d'arte.
Ma anche il linguaggio non è solamente semantica e sintassi, ovvero non è soltanto un tentativo di separazione, anche il linguaggio ha una sua durata che bisogna però riscoprire per fare della parola una forza propulsiva. È anche per questo che Bergson fa questo uso del linguaggio, ovvero un uso molto cospicuo delle metafore, infatti le metafore sono un linguaggio aperto a varie interpretazioni.
Quindi bisogna cercare di non fossilizzarsi a questa unica interpretazione scientifica, tesa alla comprensione, e invece proporre una inversione di tendenza che ci porti ad incontrare la realtà in modo differente. L'atteggiamento scientifico è come quello che comprende la realtà così come uno che volendo imparare a nuotare lo faccia leggendo i manuali di nuoto, senza immergersi nell’acqua; quindi si comprende la realtà soltanto immergendosi in essa e aprendosi alla pluralità di significati che essa esprime.

È chiaro che questa nuova definizione che compare nei “Saggi sui dati immediati della coscienza” rappresenta un elemento rivoluzionario all'interno del paradigma positivista che dominava la realtà del tempo. Nella sua seconda opera Bergson affronta la questione relativa alla memoria, che si origina da quello che era l'elemento essenziale del “Saggio sui dati immediati della coscienza”, ovvero quello della distinzione tra spirito e materia. Quindi in “Materia e memoria” (che è la sua seconda opera) si parte da questo presupposto, che era stato l'elemento centrale della distinzione tra coscienza e realtà spaziale esterna, cercando di trovare un elemento di unificazione.
Non a caso Bergson arriva alla composizione di “Materia e memoria” dopo anni di studio di questioni essenzialmente linguistiche e in particolare sulle patologie del linguaggio, infatti proprio studiando queste patologie emerge quel cortocircuito che esiste tra la dimensione del corporeo (spazio) e dello spirito (tempo). Probabilmente, anche avvicinandosi alle teorie psicanalitiche di Freud, Bergson identifica proprio nella memoria (identificando le patologie di tipo linguistico con le patologie della memoria) l'elemento di mediazione tra la materia e lo spirito.
“Materia e memoria” si apre interrogandosi su che cosa sia la realtà e soprattutto che cosa sia la realtà per il soggetto, come sappiamo si erano affermate due concezioni:
1.       la prima è quella realista, che riteneva che la realtà corrispondesse all'oggetto che il soggetto si trova di fronte e che quindi ci fosse questa netta separazione tra la realtà oggettuale e il soggetto, il quale doveva adeguarsi alla realtà oggettuale per poter comprendere
2.       al realismo si contrapponeva alla visione schopenaueriana o barkleiana, ovvero quella che riteneva che la realtà fosse essenzialmente soggetto, intesa come rappresentazione e apparenza nei confronti del soggetto, perché la realtà qualcosa da cui noi non possiamo mai attingere perché la incontriamo sempre attraverso i nostri organi di senso e quindi attraverso rappresentazioni
Bergson si pone a metà strada e dice che in realtà la realtà non è puro realismo (quindi non è oggettività) ma non è neanche pura rappresentazione, quindi l'oggetto esiste in se stesso come noi lo scorgiamo, non è né una rappresentazione né qualcosa di inconoscibile, l’oggetto è immagine. Ogni cosa per noi è un'immagine e l'immagine è qualcosa che si pone a metà strada, una rappresentazione ma allo stesso tempo non è pura oggettività, come il cinema non è realtà, ma ha bisogno della realtà (ovvero di un substrato da riprendere) e ha bisogno di uno spettatore che osservi.

Tra tutte queste immagini che costituiscono la realtà ne emerge una in modo particolare, ovvero quella del nostro corpo e, nettamente associata questa immagine del corpo, è quella della guida di questo corpo, ovvero il cervello. Il cervello, che per Bergson, pur essendo qualcosa da cui si producono i pensieri non spiega globalmente il pensiero, perché il pensiero è qualcosa di interiore (è un fatto della coscienza) rispetto alla dimensione fisiologica del cervello.
Lettura pag 103 “Il gancio e l’abito”
Nuovamente per spiegare questa relazione tra cervello e pensiero (tra materia e spirito) Bergson utilizza una metafora, ovvero la metafora del gancio e dell’abito.
Una volta che si è in possesso della chiave che permette di indagare la struttura cerebrale sarebbe possibile comprendere anche l'essenza del pensiero perché le due cose sono strettamente connesse, quindi non esiste un'eccedenza del pensiero rispetto all'attività del cervello. Bisognerà capire quale relazione c'è fra le due cose, il fatto che le due cose siano strettamente collegate, come un abito (pensiero) appeso da un chiodo (cervello), non si può presumere che l'abito abbia le stesse caratteristiche e la stessa forma del chiodo, ovvero che corrisponda dal punto di vista formale a quello che è il cervello; così per Bergson non è assolutamente dimostrabile che il pensiero corrisponde esattamente alle attività cerebrale (ha una funzione del cervello).

Il cervello è un centralino (un centro di azione), che all'interno del mondo percettivo, che per noi è illimitato (perché possiamo percepire qualsiasi cosa) non fa nient'altro che selezionare il campo delle nostre percezioni, ritagliando quella sfera di percezioni necessarie all'utilità della nostra azione (vogliamo verificare che gli studenti siano attenti e quindi gli osserviamo), naturalmente questo avviene con un processo quasi istantaneo di cui noi non ce ne rendiamo conto.
Quindi potremmo dire che l’attività del cervello si pone tra la stimolazione della realtà esterna e l'azione del soggetto, la quale deve essere un'azione congrua ed adeguata a quello che si prefigge nella realtà.
Quindi la percezione più che una realtà o un fatto è una relazione tra l'uomo e l'ambiente circostante, il cervello è come un ponte tra il soggetto e la realtà; quindi la percezione non è una mera rappresentazione fotografica è una attività secondo la quale il nostro cervello funziona un po' come il nostro occhio che seleziona l'immagine che vogliamo cogliere, ovvero decide che cosa percepire in vista dell'interesse pratico.

La facoltà che permette di collocare queste percezioni nell'attività dello spirito, ovvero l'attività di coscienza, è appunto la memoria, perché la memoria da una parte presiede all'attività percettiva (perché il cervello seleziona le percezioni in base alle esperienze precedenti e a tutte quelle percezioni che sono state utili a svolgere una determinata azione) e dall'altra la memoria svolge anche un'altra azione, la quale supera il cervello inteso come il centro di azione, perché la memoria riesce a trasportare le percezioni dal livello dello spazio (dalla realtà esterna) a livello del tempo concepito come durata, perché attraverso la memoria si stabilisce un rapporto dinamico tra il presente, il passato e il futuro (perché le azioni dipendono da questa memoria pregressa).
In queste tre dimensioni il passato secondo Bergson ha una antinomia spirituale rispetto alle altre due dimensioni e quindi anche rispetto alla percezione perché questa è sempre una percezione attuale e quindi riguarda sempre il presente, la quale non è autonoma come dimensione temporale perché la percezione è sempre proiettata verso il futuro (ovvero il successo pratico dell'azione).
A partire da questi presupposti Bergson individua due tipi di memoria,
1.       una memoria meccanica, quella legata al successo della selezione percettiva (che utilizza le selezioni passate e che fa sì che ogni percezione nuova sia accompagnata da un alone di percezioni passate dalle quali si attinge il successo dell'azione). Questo tipo di memoria è una memoria volontaria, che funziona in base ai risultati che abbiamo avuto in precedenza e quindi la memoria meccanica rappresenta l'utilizzo delle percezioni precedenti per affrontare la realtà che Bergson rappresenta come quel piano tangente alla punta di un cono (che è l'alone di ricordi). Naturalmente questo alone di percezioni si baserà sull'efficacia delle percezioni precedenti, così come si impara a memoria qualcosa (che io debba imparare a memoria una poesia piuttosto che un'altra il sistema per memorizzare è sempre identico, studiando a memoria i versi)
2.       memoria pura, è quella che fa riferimento al tempo come durata, quella che fa riferimento a esperienze che in realtà sono irripetibili, infatti è la memoria che riaffiora senza nessun tipo di esigenza e di necessità e mi riconduce a una esperienza emotiva provata in un'epoca precedente (come avviene nel romanzo “Alla ricerca del tempo perduto” di Prust).
Questa esperienza che ricordiamo non è utile e soprattutto non è reversibile, mentre la memoria meccanica funziona in tutti i casi, le emozioni sono tutte diverse tra loro e non sono comparabili, queste tra l'altro non hanno alcuna utilità ma è quello che mi fa avvertire la mia memoria come un flusso, come qualcosa di ulteriore rispetto alla memoria meccanica, come una memoria spontanea (una rappresentazione di insieme coestensiva alla coscienza, che si estende a tutta la coscienza) che fa sorgere in me uno stato completamente diverso (ovvero ci fa percepire sempre in modo differente la realtà). Tutto questo dimostra che noi non siamo solo mera attività fisiologica e attività teoretica scientifica, siamo un'attività di coscienza elastica che riesce a trovare soluzioni nuove e creative alle sollecitazioni che la realtà ci pone.
La temporalità di questa memoria, che chiaramente è diversa rispetto alla memoria meccanica (che corrisponde al tempo ripetibile della scienza), corrisponde alla temporalità della coscienza e alla temporalità della durata. Ecco perché il ricordo può mai essere considerato una percezione sbiadita, perché il ricordo puro (quello che ha a che fare con la dimensione emotiva) è qualitativamente differente rispetto alla percezione perché si collocano a due livelli differenti.

Dopo aver dimostrato che la coscienza è essenzialmente qualcosa che è caratterizzato dallo slancio e dalla dinamicità (dal flusso) Bergson cerca di applicare lo stesso modello anche alla realtà esterna, quindi la coscienza non è solo questo ma anche la realtà è caratterizzata da questo slancio vitale (elan) e da questa sostanziale creatività.
Di questo si occuperà nella sua opera intitolata “L’evoluzione creatrice” del 1907, con la quale Bergson si allontana definitivamente dall'evoluzionismo positivista. In quest’opera Bergson vuole estendere il concetto di durata (o di flusso inarrestabile che caratterizza l'attività di coscienza) anche alla natura biologica in generale. Tutto parte dal presupposto che la memoria non può essere concepita laddove non si faccia riferimento a una sostanziale tendenza e spinte in avanti, e questa spinta per Bergson rappresenta l'avanzamento della realtà in generale.
Questa tendenza della coscienza permette a Bergson di compiere la realtà scoprendo che tutto nella realtà è caratterizzato da un concetto, ovvero dal concetto di organizzazione. Innanzitutto per organizzazione, sia nell'attività di coscienza sia nella realtà in generale, si intende lo scoprire che esiste una solidarietà tra le parti, ovvero scoprire che ogni parte è solidale con le altre e quindi è compenetrata con le altre in modo reciproco; ma non solamente ogni parte è compenetrata con le altre parti del sistema ma anche con il sistema in generale, perché il sistema non è la somma delle parti ma è qualcosa di ulteriore. Quindi prima di una relazione meramente meccanica e corporea nella natura esiste una relazione spirituale tra tutte le parti perché ogni elemento si muove in direzione del fine che corrisponde con il sistema in generale. Quindi alla concezione essenzialmente meccanica che sembrava imperante nella scienza dominata dal paradigma newtoniano Bergson afferma una priorità del finalismo rispetto alla causa efficiente, una sorta di intelligenza creatrice da parte della natura che genererebbe, non in base a leggi di natura meccanica, ma in direzione di uno scopo.
Come abbiamo detto dopo la concezione di questa distinzione tra la dimensione dello spirito, che è caratterizzato dalla vitalità e dalla dinamicità, rispetto alla dimensione della staticità e della artificialità che presenta la realtà esterna, che è materia, Bergson cerca di dimostrare nella sua opera intitolata “Evoluzione creatrice” del 1907 come anche la natura sia caratterizzata essenzialmente dal fatto di essere durata e quindi il flusso e quindi di essere anch'essa slancio vitale (helan).
Questo concetto di slancio vitale è molto importante e il titolo stesso ci fa capire che, pur richiamandosi all'evoluzionismo, Bergson vuole segnare una differenza con l'evoluzionismo positivista concependo l'evoluzione naturale non come qualcosa determinato da leggi necessarie fosse caratterizzata dalla creatività e quindi dalla libertà, ovvero ciò che compare non compare in un modo necessario e meccanico ma compare perché si muove in modo creativo in direzione di un fine.
Lettura “Lo slancio vitale”
Bergson utilizza nuovamente una metafora perché vuole dire che questo slancio vitale proprio della natura in realtà è essenzialmente caratterizzato dalla virtualità, ovvero è un insieme di potenzialità che si possono realizzare nella natura, assumendo determinate forme, forme che di questa potenzialità sembrano la concretizzazione molteplice (perché la vita assume molteplici forme). Solo che questa molteplicità è qualcosa che osserviamo a posteriori così come a posteriori la divina commedia ci sembra una poema diviso in tre cantiche con trentatre canti; ma in realtà questa molteplicità è una molteplicità spazializzata perché non coglie quella che è l'essenza del poema, perché il poema in quanto tale è qualcosa di unico. Così anche lo slancio vitale è unico (come il flusso di coscienza è unico e che costantemente opera) e operando genera tutto ciò che ci circonda (che poi noi quando lo serviamo presente nella realtà spazializziamo). Questo vuol dire che ciò che è essenziale non è ciò che compare ma è quella forza che sta dietro e che coincide con lo slancio vitale, che è la vera e propria forza e legge vitale della realtà e della natura.
Lo slancio vitale però non è un concetto che viene creato per giustificare qualcosa che in realtà non riusciamo a cogliere, lo slancio vitale non spiega la realtà dal punto di vista razionalistico, quindi l'unico modo per poterlo concepire è l'intuizione, perché là dove vediamo che costantemente la natura è caratterizzata dal produrre sempre nuova vita dobbiamo concepire una forza vitale che in qualche modo sia all'origine di questa costante produzione. Questa è una cosa a cui non possiamo arrivare attraverso un ragionamento ma solamente attraverso l'intuizione, che per Bergson è la forma di conoscenza più adeguata perché l'intuizione (come diceva Cartesio) rappresenta quelle verità che si presentano in modo chiaro e distinto alla nostra ragione e quindi avuto evidenti.
Lo slancio vitale Bergson lo associa anche all’esplosione di un obice (una bomba), infatti una bomba quando esplode determina una frammentazione delle parti che la compongono e questi frammenti si indirizzano in modo casuale spinti da una forza propulsiva, ciò che ferma questi frammenti è l'incontro con una realtà che si pone come ostacolo al loro movimento e questa realtà che fa da ostacolo è la materia (che è l’elemento passivo), quindi la materia è l'elemento che fa da ostacolo alla forza vitale che si esprime nella natura e che fa affiorare la vita alla piuttosto che da un'altra parte. Un altro esempio che porta Bergson è quello del fiume Carsico, che scorre sotto terra e quando trova un ostacolo riaffiora e poi dopo nuovamente rientra nelle viscere della terra e continua a procedere finché non trova un altro ostacolo. Così va la natura e lo slancio vitale, ad un punto incontra un ostacolo ed affiora insieme alla materia un pezzo di realtà. Quindi lo slancio vitale e la natura è caratterizzata dall'imprevedibilità e dal fatto di essere durata temporale (che costantemente fluisce); questo è molto importante perché a questo punto si unifica ogni ambito all'interno di questa temporalità unica che è il tempo della durata, e che in ogni ambito rappresenta l'essenza e la costante di ogni cosa.

Questo slancio vitale troverebbe la sua giustificazione anche nelle varie facoltà che caratterizzano il mondo vivente in quanto tale, per esempio il mondo animale è caratterizzato dall'istinto e Bergson dice che l'istinto è il binario morto dello slancio vitale in cui le azioni si fermano perché funzionano in base alla necessità. Poi ha una forma più evoluta c'è l'intelletto, che rappresenta una spinta ad andare avanti ma ha come caratteristica peculiare quello di isolare gli elementi della realtà (spazzializzandoli), quindi anche l'intelletto non coincide propriamente con lo slancio vitale. L'unica facoltà che ci permette anche di comprendere in che cosa consista lo slancio vitale e che coincide con questa forza propulsiva è l'intuizione, perché l'intuizione è l'illuminazione improvvisa in cui si concretizza ai nostri occhi per pochi istanti la realtà dello slancio vitale e poi anche perché l'intuizione è essenzialmente creatrice (a differenza dell'intelletto che è ordinatore).
Questa priorità che viene data al finalismo rispetto al meccanicismo non deve farci credere che Bergson ritorni esattamente alla causa finale di Aristotele, il concetto di finalismo per Bergson e un po’ diverso, anche se anche qui tutto è dato, ma mentre il meccanicismo determina ciò che avviene facendo riferimento alla causa che determina il sorgere di un determinato effetto, il finalismo mette la luce davanti ma è pur sempre ciò che è già stato deciso che guida questa concezione. Invece Bergson non parla a caso di evoluzione creatrice perché affinché qualcosa sia creato c’è bisogno che le possibilità siano tutte virtualmente possibili.

Bergson si trova ad un certo punto a fare i conti, con la sua concezione di tempo come durata, con la grande scoperta scientifica del novecento, ovvero la relatività di Einstein, naturalmente non può che entrare in polemica con quest'ultimo perché Einstein affermava la relatività del tempo, ovvero il tempo cambia a seconda dei contesti. Bergson dice che non vuole entrare in polemica con Einstein perché si rende conto della veridicità della teoria, lui dice solo di voler far comprendere come il concetto di durata (e quindi di tempo unico) sia compatibile con la visione di Einstein.
Bergson si basa sulla convinzione che laddove non esista un tempo unico e irreversibile anche la stessa teoria di Einstein secondo Bergson verrebbe compromessa.
Einstein spiega la sua teoria con due esempi, il primo parla di due gemelli dei quali uno viene spedito nello spazio facendolo viaggiare a una velocità della luce, passati due anni luce il gemello ritorna sulla terra, qui non incontrerebbe più il fratello, infatti, sebbene per il gemello spedito nello spazio siano passati soltanto due anni, sulla terra ne sono passati circa 200 e quindi il gemello rimasto sulla terra è già morto. Quindi non esiste un tempo unico e il tempo dei due gemelli è qualitativamente diverso, chiaramente questa è uno sperimento mentale.
Bergson dice che sia alla velocità della luce e sia alla velocità normale comunque entrambi fanno riferimento a un fluire del tempo, là dove mancasse questo tempo concepito come flusso non sarebbe neanche possibile concepire la distinzione dei tempi che sono costruzioni scientifiche e mentali.
Un altro esempio che Einstein porta è quello del treno in movimento lungo una banchina di una stazione, se il treno viaggia ad una velocità normale se nel momento in cui il treno passa attraverso la stazione scoccasse un fulmine, sia i passeggeri del treno e si i passeggeri che si trovano sulla banchina vedrebbero questo fulmine simultaneamente. Se invece il treno viaggiasse alla velocità della luce il fulmine non verrebbe accolto come simultaneo, quindi un evento che avviene in un determinato momento può essere colto in due istanti diversi di riferimento ai sistemi di riferimento che si usano, infatti alla velocità della luce i tempi si dilatano e gli spazi si restringono.
Bergson dice che questo è vero ma se noi consideriamo questo dal punto di vista della coscienza entrambi gli eventi non possono che essere simultaneo perché indipendentemente dal luogo che si situa all'interno del sistema di riferimento l'evento, la percezione coscienziale dell'evento è comunque simultanea e questo dimostrerebbe come il tempo dello spazio, che un tempo che può essere affrontato secondo le teoria della relatività, faccio comunque riferimento ad un tempo che lo precede, che al tempo della coscienza, che invece si presenta con un tempo unico, come spiega nel suo libro “Durata e simultareità”.

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