giovedì 15 settembre 2011

Fichte

Come vedremo questa tensione all'assoluto e in ciò che permette di giustificare come appartenenti alla tradizione romantica e i filosofi dell'idealismo, perché tutti e tre cercheranno essenzialmente di dare una risposta a quello che era stato il problema kantiano per eccellenza, ovvero il dualismo kantiano tra soggetto e oggetto e tra fenomeno e noumeno.
E’ chiaro che Fichte per certi versi ritiene di portare a compimento un percorso che già Kant aveva iniziato quando aveva parlato della riflessione a priori, secondo la quale i fenomeni, ovvero la realtà nel suo modo di manifestarsi, obbediva in qualche modo alle leggi dell'intelletto, però questo non basta perché appunto rimane nella critica della ragion pura questa ferita ingiustificabile che era presentata proprio dalla cosa in se.
Ora poiché dimostrazione realista si era dimostrato improponibile secondo Fichte bisogna passare attraverso un'altra strada, che è poi quella che guarda alla soggettività assoluta come fondamento di ogni cosa. L’elemento essenziale da cui si origina il pensiero che guida Fichte nella sua più famosa opera speculativa non è nient'altro che un continuo ruotare sui temi affrontati nel suo capolavoro, “La dottrina sulla scienza”, che verranno sempre in qualche modo elaborati e modificati in relazione all'evoluzione del suo pensiero. Elemento centrale però è questa esigenza di unificazione e di eliminare questo di dualismo è trovare un'unico principio che ci permetta di superare questo ostacolo che era stato introdotto da Cartesio e che continuava ad essere presente. Bisogna anche dire però Fichte, per il quale in un certo senso anche l'attività speculativa coincide essenzialmente con una azione (e per questo viene chiamata filosofia speculativa e pratica), anche la questione di una scelta di campo, dal punto di vista filosofico, è una azione di scelta e quindi di azione, ovvero per lui le scuole filosofiche si dividono essenzialmente in due categorie: ci sono quelle realistiche o del realismo e quelle soggettivistiche o idealistiche che partono dalla attività rappresentativa e quindi ideale del soggetto in quanto tale. Naturalmente la differenza sta nel fatto che il realismo pone l'accento sulla realtà oggettuale come qualcosa di separato all'uomo, ci aderisce al realismo a una certa concezione di quello che propriamente è l'uomo in quanto tale, il quale è ridotto essenzialmente a passività e ricezione; il realismo invece pone l'accento sulla dimensione ideale per rappresentativa del soggetto e naturalmente si basa sulla libertà, ecco perché il dogmatismo (che viene individuato anche nella critica alla ragion pura che aveva concepito il mondo come dominato dal determinismo) è una caratteristica della realismo e quindi sotto il segno della necessità, mentre l'idealismo va in direzione della spontaneità e quindi della libertà.
Ora poiché la critica della ragion pratica aveva dimostrato come l'uomo sia essenzialmente libertà è a partire essenzialmente da questo primato della libertà che l'uomo è che Fichte cerca di ricondurre anche la riflessione sulla fondamento speculativo unico all'interno di questa dimensione, ovvero di dimostrare come l'uomo è libero anche nei confronti dell'oggetto in quanto l'oggetto non è nient'altro che qualcosa che deriva dall'attività dell’io.
Lettura “Il principio assolutamente primo”
Innanzitutto capiamo uguale allo scopo di Fichte, ovvero scopo della dottrina della scienza (cioè di un sapere che si possa presentare come fondamento del sapere scientifico e quindi che preceda il sapere scientifico) è quello di trovare una principio assoluto e incondizionato, ora se questo è vero questo principio non potrà mai essere dimostrato perché la dimostrazione è essenzialmente un ragionamento che parte da alcune premesse, le quali chiaramente precedono una conclusione stessa. Ora il primo principio, se vuol essere assolutamente primo, qualcosa di non dimostrabile ma che in qualche modo dobbiamo ritenere che ebbero assolutamente e quindi qualcosa di evidente non attraverso una ragionamento ma di auto evidente.
Il principio che si ricerca quindi deve esprimere quella cosa con la quale sono possibile tutte le nostre operazioni della coscienza che poi che permettono di produrre le nostre consapevolezze delle nostre conoscenze, quindi ciò che rende possibile tutto ciò.
In questa ricerca però il nostro compito non è tanto quello di non pensare ciò che non si può pensare, se dobbiamo infatti trovare fondamento unico dobbiamo pensare, ovvero raggiungere, proprio ciò che non si può pensare, perché ciò che sta fondamento del pensiero e ciò che sta a fondamento naturalmente non può essere versato attraverso il pensiero. Come vediamo se ci muove già il mio circolo, infatti dobbiamo pensare ciò che, proprio perché è a fondamento del pensiero, non può essere pensato; ora è chiaro che noi dovremmo pensare in modo diverso da come si pensa normalmente ma in un modo non ha caratterizzato dalla mediazione concettuale e quindi in modo immediato.
In un certo senso bisogna scoprire la legge che guida il nostro agire senza che naturalmente queste leggi siano state dimostrate, però le dobbiamo assumere come sostanzialmente dimostrate, perché attraverso di esse che possiamo dimostrare qualcosa. Ora per poter cercare di raggiungere quello che ha l'obiettivo bisogna partire da una proposizione che come auto evidente e dimostrare come non è la logica che fonda sapere (cosa che in un certo senso si dava per scontata da Aristotele e poi e che dava per scontato anche Kant secondo Fichte), ma che è l'attività del sapere che fonda la logica, la quale a sua volta però poi fonda sapere, ovvero lo giustifica il modo incontrovertibile (nuovamente si ritrova circolo).
Come vedremo questo fondamento, che per Fichte coincide con l’io, si caratterizza attraverso un processo di natura dialettica (per processo dialettico si intende una processo composto essenzialmente da tre momenti il cui ultimo momento rappresenta l'unificazione ad un livello diverso dei primi due); questo processo dialettico è formato da una tesi (che al primo momento), che al momento dell'affermazione, via è poi l'antitesi, che sarà la negazione della tesi e poi c'è il terzo momento, che è la sintesi, che rappresenta l'unione di tesi e l'antitesi, ovvero il momento in cui negando la negazione si riafferma ad un livello diverso quello che era stato fermato nella tesi.
Ora se questo processo deve riguardare questo principio fondamentale (posto a fondamento di ogni attività spirituale), che coincide con l’io puro, ora è chiaro che il primo momento affermerà io anzi è il momento in cui l’io afferma se stesso, ma poiché l’io è sostanzialmente attività di porre qualcosa di questi tre momenti dell’io Fichte le chiama le tre posizioni dell’io. E infatti la prima posizione recita “l’io pone se stesso”, la seconda che è la negazione si oppone all’io e sarà quindi “l’io oppone a se stesso un non-io”, questa negazione dell’io coinciderà naturalmente con tutto ciò che in qualche modo si distingue dall’io stesso, ovvero la natura e la realtà oggettiva, non a caso il latino oggetto si dice obiectum che letteralmente significa muoversi contro, quindi l'oggetto ciò che si muove contro il soggetto e che gli stava di fronte.
La sintesi infine recita “l’io assoluto un io divisibile oppone a se stesso un non-io altrettanto divisibile”, in questo caso però divisibile è inteso nel significato di limitato e quando si parla di io puro non si deve pensare a se stessi, infatti l’io non è il soggetto empirico determinato, l’io soggetto empirico determinato è sempre una io divisibile e quindi limitato da essere questo io in questo momento. Quindi l’io puro è un io assoluto che si pone come giustificazione razionale di quello che è anche il io divisibile dimostra di essere, ovvero attività di giudizio e di rappresentazione.
A questo punto si tratta di capire le giustificazioni a queste tre posizioni.
Lettura “L’io pone se stesso”
Visto che abbiamo detto che bisogna arrivare a una proposizione che in qualche modo si presenti come auto evidente vediamo che in una qualsiasi fatto o il vento di coscienza e empirico che ognuno ha se tolgo tutto l'aspetto empirico, ciò che rimane di assolutamente indubitabile è quello che Aristotele chiamava il principio di identità, ovvero che una cosa è uguale a se stessa. Questa verità, che sembra una verità fondamentale della logica, sembrerebbe la proposizione prima quella non ulteriormente componibile, ma per Fichte non è così. Questa proposizione è certa senza una ragione ulteriore e bisogna anche capire che il verbo essere può essere usato, come aveva già detto Kant, sia come copula e sia come verbo di esistenza, per questo l'uso copulativo è un uso giudicante (ovvero predicare qualcosa di un determinato oggetto). Però se ammettiamo che “A è uguale ad A” sia un giudizio significa che ammettiamo una attività giudicante, che in qualche modo preceda questo giudizio che abbiamo, ovvero abbiamo che prima di “A uguale ad A” esista una X che coincida con questa attività di giudicare e naturalmente quest'attività giudicante coincide con l’io (ovvero io sono). Ma indipendentemente dalle caratteristiche empiriche del io scopro che li ho in quanto tale è attività giudicante e quindi scopro che precedentemente ad “A uguale ad A” c'è un'altra formulazione ovvero quella di “io uguale io”, quella del io che pone se stesso come quella che è la caratteristica costitutiva del io ovvero l'attività di giudizio e quindi attività rappresentativa.
Essere e porre se stesso per l’io sono identici perché l’io è in quanto attività ponente, che pone, che rappresenta e che agisce il mondo, o l’io non è o se è questo: potenzialità o aver attività di porre qualcosa.
Questo significa che la logica che ha pensiero non sta fondamento della cosa perché prima del pensiero c'è l'attività di pensiero che era appunto quella capacità di unificare le rappresentazioni con le quali non è giudichiamo la realtà che Kant aveva chiamato io puro o io trascendentale; solo che da fondamento funzionale della nostra capacità di organizzare i dati dell'esperienza cui li ho puro diventa fondamento metafisico di ogni cosa perché si pone prima di ogni cosa.
Qui sta la grande differenza con Kant, infatti Fichte ritiene che il io puro posso avere anche intuizione intellettuale, mentre sappiamo che per Kant l'uomo può avere sull'intuizione sensibile perché le intuizioni intellettuali sono quelle che secondo lui può avere solamente Dio, che pone a se stesso e che crea l'idea della cosa.

Passiamo quindi al secondo punto ricordando che però abbiamo scoperto che l’io pone se stesso come attività di rappresentazione e quindi l’io e nella misura in cui giudica, però per poter giudicare qualcosa c'è bisogno di far riferimento a qualcosa e affinché questa attività che coincide con l'assenso dell’io è necessario che si dia qualcosa sulla quale esercitare tale attività rappresentativa, coperte e si arriva al secondo momento, c'è bisogno di qualcosa che si opponga e che si ponga di fronte a l’io sul quale l’io posso esercitare ciò che propriamente è, altrimenti si otterrebbe di essere ciò che propriamente è.
Ecco perché la realtà nasce come qualcosa fondamentalmente determinata dall’io perché la natura o mondo oggettivo viene ricondotto Fichte a una mera esigenza dell’io, che ha bisogno di un non-io per continuare la sua attività di rappresentazione. E come vedremo è chiaro se l'affermazione si basava sul principio di identità la negazione si baserà sul principio di non contraddizione.
Lettura “l’io oppone a se stesso un non-io”
Questa opposizione non può che essere una posizione che è posta dall’io stesso quindi è l’io che oppone qualcosa di fronte a se stesso che rappresenta l'opposizione a se stesso ovvero il non io. Ogni atto è quindi incondizionato per la sua forma, che poi coincide essenzialmente con l'attività di rappresentazione dell’io, ma è invece condizionato dalla materia, che naturalmente si capisce per ciò che si oppone alla forma, ecco perché il non-io rappresenta la dimensione materiale, ovvero la dimensione della realtà e dell'oggettuale che è necessario presupporre come materia affinché l'incondizionato forma dell'agire del io possa esercitarsi. Solo in riferimento al fatto che l'attività del io e spontanea, e quindi si caratterizza come un porre, la sua negazione si presenta come una proposizione, ovvero rappresenta un ostacolo su cui si esercita questa attività di rappresentazione dell’io.
Ora per poter determinare in cosa consista questo non-A devo presupporre la conoscenza di A, perché non-A deriva necessariamente dalla negazione della posizione di A, quindi in questo caso la posizione A precedere l'opposizione non-A e nuovamente dimostra come l’io sia prioritario, e quindi in qualche modo si possa presentare come principio assoluto, rispetto alla non-io, ovvero rispetto all'oggetto della realtà.
Ora poiché anche in questo caso il non-A si riconduce a una opposizione che si richiama all'attività di rappresentazione dell’io, ecco perché “non-A non è uguale ad A” può essere tradotta in “non-io non è uguale ad io”, ovvero è qualcosa di opposto rispetto all’io, qualcosa che nega l’io per permettere all’io di esercitare la propria attività.
Ora se è vero che l’io non è consapevole di se stesso ma crea anche la realtà perché le serve come opposizione per esercitare la sua attività di rappresentazione come facciamo noi a non accorgercene? Come è che io penso che gli oggetti esterni mi sembra che siano lì e mi precedano? Come è che l'attività di rappresentazione produce in modo inconsapevole la realtà?
Fichte risponde che questa possibile grazie a una facoltà che già Kant aveva teorizzato, ovvero l'immaginazione produttiva, ed è grazie a questa che l’io puro produce modo inconsapevole e in una moto spontaneo anche alla realtà della non-io, ovvero pone a se stesso una realtà che gli permette di esercitare la propria attività.

Tuttavia mi sembra sempre che gli oggetti mi precedano, questo perché non ci muoviamo all'interno del terzo momento, che è quello della dimensione finita e a questo punto capiamo cosa Fichte intendesse per “l’io assoluto un io divisibile o pone a se stesso un non-io altrettanto divisibile”, ovvero nella realtà assoluta un io limitato, che svolge anche rappresentazione di coscienza, che è appunto io divisibile oppone a se stesso una non-io (che è il fenomeno o l'oggetto) altrettanto divisibile e da questa divisione che significa l'imitazione nasce quell'aspetto che è proprio della nostra percezione e della nostra attività di coscienza che ci porta a raffigurarci ciò che ci rappresentiamo come separato e preesistente alla nostra attività. E’ a questo livello del io empirico che a noi pare che gli oggetti non siamo noi a crearli, invece alla dimensione del io puro del io trascendentale questa distinzione non esiste, anzi una prova dell'assolutezza dell'attività dell’io è data dal fatto che gli oggetti, affinché noi le possiamo comprendere, si presentano a noi come fenomeni seguendo le leggi dell'intelletto come diceva Kant.

Abbiamo detto che Fichte per fondare la sua posizione parte dal principio di identità, ovvero da una principio della logica che si presenta come auto evidente e come proposizione logica più certa in assoluto e quindi più originaria, e abbiamo visto come da questo sia portato a vedere come in realtà non stia nella proposizione della logica che identifica il principio di identità all'origine ma sia un'attività da parte del pensiero di porre tale principio, ovvero l’io si pone precedentemente rispetto qualsiasi proposizione della logica e quindi si pone come origine di una posizione originaria che è quella attraverso la quale l’io pone attraverso il primo principio assoluto se stesso. Questo significa che l’io pone all'origine di ogni cosa quel attività spirituale rappresentativa che l’io propriamente è.
Ora qui sorge un problema perché se l’io è attività rappresentativa, ovvero capacità di rappresentarsi il mondo, e esiste proprio in quanto tale capacità e le potenzialità (e la cessazione di questa potenzialità creerebbe dei problemi perché il metterebbe di essere ciò che propriamente è), occorre che questa attività su qualcosa si eserciti, occorre che ci sia quello che normalmente chiamiamo la realtà oggettuale che possa permettere al’io di compiere questa sua attività di rappresentazione, ovvero ci vuole qualcosa che neghi l’io sulla quale l’io possa esercitarsi. Ecco perché se arriva la seconda posizione, nella quale l’io oppone a se stesso una realtà che chiamiamo non-io; come abbiamo detto in questo caso Fichte utilizza il principio di contraddizione e dimostra come se è vero che il principio di identità e preceduto dalla prima posizione dell’io, necessariamente il secondo principio deve essere preceduto da questa opposizione ancora più originaria attraverso la quale l’io pone davanti a sé un non-io, che coincide essenzialmente con quello che abbiamo chiamato natura.
Però questo crea una problema infatti, come abbiamo già detto, se il non-io è posto dall’io stesso come è che secondo noi una realtà preesistente? Perché qui ci troviamo all'interno di una dimensione della finitezza e della divisibilità che in qualche modo non riguarda la dimensione dell'assolutezza dell’io dove, grazie all'immaginazione produttiva che ha un'abilità inconscia, l’io riesce a rappresentarsi di non consapevolezza, che è appunto il non-io.
Questa sintesi che permette di relazionare io e non-io in realtà si compie su una reciproca divisibilità dell’io sul non-io e del non-io sull’io.
Lettura “L’io oppone nell’io all’io-divisibile non non-io altrettanto divisibile”
Come fa la realtà empirica sembra basarsi su questa costante relazione di io e non-io che in quanto posti di dovrà però annullarsi? Essi si limiteranno reciprocamente e limitar qualcosa significa non sopprimere totalmente la realtà ma solo in parte mediante una negazione, cosi come nell’anatomizzazione dell’io sopprime tutte quelle parti della realtà che non si rappresenta, cosi allo stesso tempo il non-io limita la rappresentazione dell’io costringendolo a rappresentarsi se stesso piuttosto che non tutto.
Il qualcosa che è ciò che differenza la dimensione infinita dell’assoluto è invece la dimensione del finito, essere qualcosa significa non essere tutto e la realtà empirica in quanto tale è costituita da oggetti che sono qualcosa, sono determinate, hanno un limite. Mentre l’io assoluto è qualcosa di non divisibile, che non ha nessuna predicazione, l’io empirico e divisibile invece è qualcosa, è per esempio il proprio io.
L’io divisibile in quanto tale, in quanto oggetto tra gli oggetti o fenomeno tra i fenomeni, in qualche modo è qualcosa che non si oppone all’io assoluto perché si presenta come una realtà divisibile assolutamente eterogenea rispetto all'assolutezza infinita e indivisibile dell’io assoluto. Questa super coscienza dell’io assoluto che sta prima di qualsiasi distinzione tra io empirico e oggetto empirico; è nell’io assoluto che si compie la creazione del non-io, non nell’io empirico che può avere solo intuizioni empiriche.
Quindi il non-io che è divisibile si presenta come una realtà esterna che si manifesta secondo le leggi della coscienza e quindi si organizza per essere colta dall’io empirico, ma solo come fenomeno in quanto come oggetto sembrerebbe qualcosa di estraneo rispetto al soggetto, mentre il banco si manifesta secondo quelle categorie dell'intelletto per cui io non posso pensare il Banco in se in realtà sembrerebbe qualcosa di separato dal io empirico, questa opposizione questo di visibilità è risolta da Fichte in una dimensione interiore che è quella del io assoluto, di un io trascendentale che non è più l'insieme delle funzioni del io empirico, ma è qualcosa di ulteriore e trascendente rispetto alla dimensione empirica, perché altrimenti non potrebbe essere fondamento assoluto della dimensione oggettiva e soggettiva, ovvero non potrebbe ricondurre entrambe le dimensione all'interno della dimensione soggettiva.
L’io assoluto crea il non io assoluto, all'interno del quale si staglia una divisibilità che è composta dagli oggetti in quanto tali, che sono quelli che percepiamo perché siamo limitati.

Molto importante è la questione morale in Fichte, perché la sua riflessione speculativa risente talmente tanto del concetto di libertà, e ha identificato nel soggetto nella critica la ragion pratica, che è stata definita una critica speculativa pratica, perché anche in Fichte esiste un primato della pratica, ovvero della dimensione della libertà, rispetto alla speculazione e quindi all'attività di pensiero. Qui tutto si basa sulla prevalenza del soggetto che si caratterizza come spontanea e libera attività, quindi affinché sia possibile del soggetto continui ad essere quello che propriamente occorre che sia garantita questa libertà, solo che questa libertà, che per Kant riguardava solo la dimensione della volontà, per Fichte viene ricondotta anche alla dimensione del pensare, appunto come attività di rappresentazione.
Ora allo stesso modo per cui ciò che segna il costituirsi di una attività di rappresentazione di conoscenza deriva per Fichte da una opposizione, da un non-io, anche dal punto di vista morale tutto si origina da uno scontro tra la libertà assoluta dell'uomo e la sua impossibilità di poterla realizzare pienamente. Quindi anche per agire l'uomo ha bisogno di un ostacolo, l'azione morale è quella che permette all'uomo di superare gli ostacoli alla realizzazione della sua piena libertà, ovvero la nascita di valori morali è possibile solo laddove si presuppone l'esistenza di ostacoli da superare e quindi senza ostacoli è possibile che esista vita morale. Compito dell'uomo è quello di agire sempre in direzione del superamento di questi ostacoli, con la differenza che proprio in questo agire ci sta già una valore morale per Fichte perché l'agire stesso, prima di qualsiasi distinzione tra agire buono e agire cattivo, è morale. Questa è la distinzione tra l'etica kantiana e quella di Fichte, infatti mentre l'etica kantiana concepisce una distinzione tra agire buono e agire cattivo come sostanzialmente morale per Fichte la moralità si pone in una dimensione precedente doveva agire è buono di per sé e il non agire è immorale, perché il non agire va in direzione della passività. Se proprio si deve cercare un peccato questo lo si trova nell'accidia, perché non agire è già di per sé moralmente negativo in quanto non agendo noi vediamo quello che essenzialmente siamo, ovvero libertà.
Solo per questo nostro agire in direzione della libertà quello rappresentato da altri io finiti e liberi che hanno il compito di realizzarsi e quindi hanno il compito di agire questo è l'unico limite, il rispetto della libertà degli altri; quindi l'universo etico di per se porta un uomo a entrare in relazione con altri individui, ecco perché per Fichte il sentimento morale è sempre un sentimento intersoggettivo, il valore morale realizza se stesso nella condivisione di fini con altri individui. Solamente se il fine è veramente comune e universale è una fine morale, quindi il valore morale non sta dell'autorealizzazione di fini individuali ma nella realizzazione di fini condivisi.
Questo compito morale e appartiene a tutti ma a qualcuno in modo particolare, ovvero l'intellettuale e non a caso scrive un testo intitolato “Il dotto” nel quale individua il ruolo dell'intellettuale come quello che poiché era già raggiunto i più alti gradi del sapere deve costruirono alla propria persona una modello di moralità che possa essere d'esempio a tutti gli altri. Ora questo si riconduce un'antica concezione classica dei filosofi, i quali avevano un ruolo educativo perché il valore sono universali e quindi è un fenomeno non solo individuale ma anche universale e il dotto si deve presentare come educatore degli altri uomini per indicare quali devono essere questi fini universali.

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