sabato 17 settembre 2011

David Hume

Come vedremo l'empirismo di Hume, che si pone dopo Barkley, è un po' più classico, anche se secondo alcuni porta sempre alle stesse conseguenze dell'empirismo radicale di Locke. Il pensiero di Hume comare per la prima volta con la pubblicazione di un'opera che si intitola “Trattato sulla natura umana”, composto tra il 1734 e il 1737, quando Hume soggiorna in Francia, quando ha solo 23 anni.
Il trattato è un'opera che viene accolta con grande scetticismo e disinteresse all'interno del panorama scozzese, che in realtà poteva essere pronta ad accogliere questa opera. Come sappiamo la Scozia dal 1707 era stata unita al regno unito e proprio in questo periodo si stavano diffondendo le teorie che erano state prodotte precedentemente nelle università inglesi e sopratutto un pensiero in particolare, ovvero quello di Newton e come vedremo Hume non si occuperà della natura celeste o fisica, ma della natura umana, nonostante ciò rimarrà molto influenzato dal pensiero di Newton.
Da Newton Hume prende l'impianto metodico newtoniano, il quale poteva sposarsi perfettamente con la concezione empirista di Locke e Barkley, alla quale Hume non nasconde di ispirarsi. Solo che questo pensiero Newtoniano viene applicato da Hume non tanto all'analisi del mondo fisico, ma all'analisi della natura umana.
Il fatto che il filosofo debba occuparsi della natura umana viene ribadito da Hume anche successivamente; lettura pag 363 e cerchiamo di capire perché per Hume sia di primaria importanza indagare la natura umana, ovvero perché ogni aspetto della conoscenza  hanno a che fare con la natura umana, perciò capire quali sono le strutture che regolano il nostro modo di guardare e conoscere la realtà è prioritario rispetto a ogni cosa.
Hume dice che noi siamo l'oggetto per eccellenza da indagare per capire come ragioniamo, perciò capiamo quali sono gli argomenti di questo trattato, la logica, la morale, la critica e la politica, ovvero quelle discipline che riguardano l'ambito umano sono propriamente umane e sono all'origine di ogni tipo di conoscenza. Ovvero si tratta di puntare alla ricerca e alla comprensione di quali sono gli elementi attraverso i quali noi possiamo pretendere di conquistare nuovi saperi, si può quindi parlare di unità del sapere, che si concretizza dal punto di vista metodologico nella consapevolezza che sia possibile e doveroso applicare quel metodo nuovo di sapere scientifico, che così tanti frutti aveva dato per quello che riguarda la scienza della natura e la scienza astronomica, anche alla natura umana, ovvero nel tentativo di trovare i principi che regolano la natura umana.
Ecco cosa vuole fare Hume, applicare il metodo newtoniano che aveva funzionato così bene nella fisica all'interno della ricerca dei principi di natura umana. Questo metodo si basava quindi su cinque punti:
1.     Lo scienziato deve basarsi innanzitutto sulla percezione e sull'esperienza
2.    Deve cercare di costruire un sistema che potesse permettere di rendere tutti i principi che governano la natura umana per quanto possibile universali, ovvero cercare delle leggi, come era la legge di gravitazione universale, che permettano di giustificare tutti i meccanismi casuali che riguardano anche la natura umana, ciò deve cercare di spiegare gli effetti con poche e semplici cause, possibilmente con una unica legge
3.    Rifiutare la metafisica, intesa come i principi primi dell'anima, in quanto si sottraggono una conoscenza diretta
4.    Non pretendere di estendere le scienze all'essenza e alle qualità occulte
5.    Non fingere ipotesi, ovvero non costruire ipotesi esplicative che non siano suffragate dall'esperienza

E' chiaro che questa posizione fondamentale che Hume assegna all'esperienza di fondamentali importanza diventa uno strumento, ovvero l'introspezione, l'auto osservazione delle proprie percezioni e dei propri fenomeni cognitivi ed intellettivi, anzi ne è talmente convinto che l'osservazione della propria mente individuale ci permettono di cogliere la struttura universale di tutta la natura umana, perché si parte dal presupposto che la natura è omogenea.
Ora poiché dice Hume noi guardiamo la realtà attraverso delle percezioni la prima cosa che bisogna fare è fornire una adeguata classificazione di quelle che sono le nostre percezioni e osservando il modo con il quale noi ci rappresentiamo la realtà ci accorgiamo che queste percezioni possono essere divise in due tipi:
·         Le impressioni, che sono quelle percezioni che presentano maggiore forza e vivacità, per esempio l'impressione del banco quando lo vedo, ovvero quelle percezioni che hanno a che fare con una esperienza diretta e immediata
·         Poi ci sono le idee, che sono percezioni che si originano dall'esperienza diretta della realtà; in particolare dice Hume che le idee rappresentano nient'altro che immagini inlanguidite delle impressioni, ovvero quando penso al banco, è indiscutibile che io lo possa fare, ma quando lo faccio mi accorgo che tra queste immagini che io mi faccio e le impressioni c'è una differenza radicale, ovvero che le prime sono molto più vivaci e le altre un po meno

Le percezioni, impressioni e idee, possono essere sia semplici che composte (qui riprende chiaramente la teoria di Locke), quelle semplici sono quelle che non permettono alcuna distinzione (come il sapore, il colore, la consistenza), composte sono quelle che permettono una distinzione tra le percezioni (per esempio la percezione del foglio, la quale è composta da un insieme di percezioni).
Per Hume però anche le impressioni possono essere composte, ovvero è indiscutibile che io ho un insieme di impressioni che poi fanno in modo di percepire il banco, però è anche vero che ho una percezione immediata del banco in quanto tale.
Questa concezione è ancora più evidente per quello che riguarda le idee, infatti se le idee sono immagini illanguidite delle impressioni è chiaro che le idee cronologicamente seguono le impressioni, ora se le idee non sono nient'altro che questo è logico che non possono esistere idee innate.
Anche Hume, per quello che riguarda le impressioni divide, così come aveva fatto Locke, tra impressioni di sensazione, che riguardano i nostri organi di senso e ci permettono di cogliere la realtà esterna, e impressioni di riflessione, che riguardano la nostra interiorità e che derivano dal fatto che un'idea  di sensazione torni a operare sulla nostra anima o coscienza, suscitando una reazione che può essere un'emozione oppure una attività dell'intelletto. Questo è molto importante perché dalla distinzione tra impressioni e sensazioni e impressioni di sensazione deriva anche una duplicità degli interessi, che compare sia nel Trattato sulla natura umana e sia nelle “Ricerche sui principi dell'intelletto” e “Ricerche sui principi della morale”, da una parte ci sarà quindi un'analisi dell'intelletto (ovvero dei diversi tipi di idee e delle loro relazioni) e dall'altra un'indagine delle emozioni e delle passioni.

Abbiamo detto che quando un'impressione si affaccia alla mente vi ritorna poi in forma di idea, ma anche le idee in realtà si possono presentare in modo differente: ci sono idee che conservano un più alto grado di vivacità, ovvero quelle idee che Hume definisce “della memoria”; ora queste idee sono molto più vivaci però hanno un limite, cioè il fatto che riproducono in modo sbiadito la stessa impressione che si è avuta in precedenza, quindi la memoria non ha la facoltà di effettuare cambiamenti nelle idee (di modificarle o assemblarle), in un certo senso la memoria è necessitata, nel senso che è ancorata all'impressione precedente. Poi ci sono altri tipi di idee che lui “idee di immaginazione” che sono meno vivaci ma a differenza della memoria l'immaginazione ha trasporre e di associare le idee tra di loro.
Quindi come vediamo per Hume ciò che presiede alla possibilità della nascita di idee complesse dipende essenzialmente dall'immaginazione, che procede alla associazione delle idee secondo dei parametri che riguardano la struttura dell'uomo e della struttura umana. Quindi le idee si formano in noi per associazioni di impressioni.
Andiamo quindi a vedere quali sono questi vincoli, lettura pag 374.
Per Hume esistono solo tre principi di connessione, che ci permettono di connettere tra di loro le idee e di poter individuare quelle idee che si presentano sempre in modo comune e identico; questi tre principi sono: il principio di somiglianza, il principio di vicinanza (o spazio-temporale) e infine il principio di reazione e causa esterna (ovvero il principio secondo il quale ciò che viene prima presumibilmente rappresenta le causa di quello che viene dopo).
Ora le idee che vengono associate tra di loro in base a questi principi (e quindi in base alla facoltà immaginativa che presiede questi principi) per Hume fanno riferimento a un principio regolatore, che attrae le idee e le dispone per attrazione ed ecco perché possa sembrare simile a quella legge di gravitazione universale che Newton aveva trovato. Questo principio tra l'altro è costitutivo dell'uomo in quanto tale,
Da questi tre principi attraverso i quali associamo le idee tra di loro derivano due tipi di idee differenti, quelle assolutamente certe (che corrispondono essenzialmente alle idee di natura logico-matematica) e le idee dei fatti.

Letture pag 367
La conoscenza ideale riguarda per Hume le verità matematiche, mentre le verità di fatto riguardano le esperienze; queste due hanno caratteristiche differenti, infatti le idee sono verità necessarie perché in realtà sono analitiche (come dirà Kant), ovvero non dicono nulla di più di ciò che già è contenuto nel soggetto (ad esempio è impossibile che esistano due parallele convergenti).

Questo è molto importante perché le verità di fatto, essendo sempre figlie dell'esperienza, sono caratterizzate dal fatto che è sempre possibile il contrario. Questa questione, cioè quella che non siamo mai certi della verità di un evento fattuale, determina un effetto che rischia di minare dalle fondamenta la possibilità che si possa raggiungere una conoscenza oggettiva, ovvero scientifica; ed è proprio questo che secondo alcuni determina l'esito scettico della questione sulla filosofia da Hume. Questo perché se tutto ciò che deriva dall'esperienza non è necessario anche quella legge che governa il rapporto tra i fatti dell'esperienza (che è la legge della causa-effetto) può essere messa in discussione, anzi la relazione causa-effetto, che non è un principio matematico, in realtà è qualcosa su cui noi non possiamo affermare nulla perché non possiamo neanche conoscerla.
Lettura pag 375
Hume quindi, anche attraverso il ricorso a un esempio, cerca di dimostrare come la causalità, ovvero la relazione causa-effetto, non è un nesso necessario tra i fatti e quindi è sempre possibile il contrario.
Hume fa l'esempio di due palle da biliardo, una rossa e l'altra bianca, delle quali quella bianca è ferma mentre l'altra si sta dirigendo verso la prima, una volta che le due palle si saranno toccate la palla bianca si metterà in movimento; perciò noi siamo portati a pensare che esista una relazione tra l'urto della palla rossa sulla bianca e il movimento che segue della palla bianca. Come vediamo la causa precede l'effetto e quindi esiste una continuità temporale e spaziale, inoltre esiste un rapporto di posticità dell'effetto riguardo la causa.
Continuando a lanciare la palla rossa sulla bianca vediamo che sempre dopo l'urto la palla bianca si mette in movimento, ecco che quindi compare un terzo elemento, ovvero la congiunzione costante tra l'evento causa e l'evento effetto. Tuttavia per quanto si possa analizzare la cosa non si trova niente di più di questo, ovvero la continuità nello spazio e nel tempo dei due eventi, la priorità dell'evento causa sull'evento effetto, costanza nella congiunzione tra la causa e l'effetto. Basandoci su questo pensiamo che tutto sia necessario e che quindi lo sia anche il rapporto di causa ed effetto, perciò tutta la filosofia, esclusa le geometria e le logica, si basa essenzialmente su questo, in quanto si basano sull'osservazione dei fatti e sull'esperienza, le uniche discipline che non sono basate sull'esperienza (ma proprio per questo sono tautologiche) sono la geometria e la logica.
Tuttavia se ci fosse un rapporto necessario data una situazione originaria, come per esempio Adamo che incontra il suo primo biliardo e vede queste due palle se il rapporto è necessario Adamo dovrebbe già aspettarsi che la pallina bianca si muova dopo l'urto, chiaramente no perché non ne ha ancora fatta esperienza e non sa che cosa possa capitare. Quindi questo prova che non esiste nessun principio di causa-effetto che preceda l'esperienza, perciò tutto ciò che possiamo concepire (come il fatto che la pallina rossa salti la bianca) è possibile, però non possiamo concepire un un triangolo con quattro lati. Perciò la dove ci sono delle dimostrazioni logico-matematiche il contrario è impossibile, mentre laddove c'è una relazione causa effetto (che poi è una forma di anticipazione dei fatti che avverranno) il contrario è sempre possibile è quindi non vi è una relazione necessaria.
Questa capacità di generalizzare dall'esperienza deriva dalla convinzione di quella che è l'uniformità della natura, ovvero ciò che ci fa pensare che le cose si ripeteranno nello stesso modo sono quindi l'uniformità della natura, mentre l'altra causa è essenzialmente un'esperienza psicologica che deriva dall'abitudine ad associare tra di loro determinati fenomeni naturali. Infatti è impossibile dimostrare che tutti gli eventi seguano le leggi di natura e che la natura sia quindi uniforme perché servirebbe una conoscenza infinita e inoltre ciò che è possibile non si può mai dimostrare come falso.
Quindi ciò che ci fa credere che quando la pallina rossa toccherà quella bianca quest'ultima si muoverà è quello che Hume definisce “custom” ovvero abitudine e credenza, ma poiché l'abitudine non è fondata su alcuna legge necessaria e nessuna necessità è chiaro che in base a questo sentimento che noi ci aspettiamo che il mondo naturale funzioni in questo modo; ecco che quindi l'abitudine è quella che Hume definisce una dolce forza che condiziona il nostro intelletto e condiziona il nostro modo di guardare la realtà.

Capiamo quindi perché i contemporanei di Hume avessero preso le sue teorie con circoscrizione infatti sembrano avere un esito pressoché scettico, proprio per questo Hume riprenderà la questione su “Abitudini e credenza” cercando di dimostrare di non essere uno scettico. Lettura “Abitudini e credenza”
La credenza non è nient'altro che quell'atto psicologico che noi avvertiamo nel nostro intelletto e che ci obbliga a credere nell'uniformità della natura e quindi a credere che se lancio una pallina rossa su una bianca questa si muoverà, ma attenzione non è un atto cogitativo dimostrativo ma un atto sensitivo e psicologico, una sorta di nesso che noi determiniamo tra gli eventi che deriva dalla maggiore forza e vivacità con cui questa connessione si presenta alla nostro mente, in pratica si presenta con maggiore forza e vivacità la credenza che la palla bianca si muoverà piuttosto che non la palla bianca resti ferma. Quindi siamo portati a formulare dei giudizi la realtà e anche a stabilire dei giudizi che abbiano un valore preventivo sulla realtà e quindi siamo portati, grazie alla credenza, a credere nell'uniformità della natura e ciò ci basta, dice Hume, per vivere nella dimensione quotidiana ma sopratutto dice anche che ci basta per la nostra conoscenza scientifica, ciò va bene perché, dice Hume, sarebbe folle non muoversi in direzione di queste aspettative che l'abitudine e la credenza determinano in noi, ovvero va bene applicare quegli esiti apparentemente scettici che la concezione prima espressa determinerebbero. L'esito si può dire scettico ma per Hume comportarsi realmente da scettici sarebbe un comportamento ancora più da folle.

Ma in realtà Hume non porta un colpo radicale al concetto necessario di causa ed effetto porta un colpo fondamentale anche ad un altro concetto, ovvero quello dell'unità dell'io, una unità che ha sempre avuto a che fare con il concetto di spikè (anima) o comunque quello di centro unitario che rappresenta la forma e il senso dell'individuo in quanto tale e ne garantisce la continuità, infatti sebbene non si trovi alcun elemento di contatto tra me quando avevo un anno e me adesso si crede che l'io che ero ad un anno sia lo stesso di adesso. Come vedremo Hume demolisce questa concezione basandosi essenzialmente sull'osservazione della realtà e sull'esperienza dicendo che in realtà l'io non è nient'altro che un “fascio di percezioni”, ovvero un insieme di percezioni ed esperienze prolungate nel corso del tempo.
Lettura “L'io è un fascio di percezioni”
Se noi siamo un fascio di percezioni e se la percezione sono una perturbazione dell'anima cioè un segno lasciato sull'anima vuol dire che noi siamo caratterizzati da una costante modifica siamo qualcosa mai uguale a noi stessi, siamo quindi qualcosa che coincide con le esperienze che abbiamo fatto in precedenza. Quindi se questo e vero significa che non esiste nulla di semplice, ovvero qualcosa che continua a perdurare nel tempo, però non c'è neanche nulla di unitario ne di identitario, perché noi non facciamo altro che coincidere con quell'insieme di percezioni di cui abbiamo fatto esperienza. Tutta questa molteplicità fa esplodere l'io in quanto tale perché l'io assomiglia ad un immenso caleidoscopio che cambia a seconda delle esperienze che a fatto e di quelle che farà. Però anche in questo caso ciò che ci fa ritenere di essere sempre la stessa persona ed essere lo stesso io è sempre l'abitudine, lo stesso Kant cercherà di porre un rimedio a queste due martellate che Hume aveva assestato alla concezione classica del sapere.
Come vediamo il panorama di Hume è molto differente da quello di Cartesio, perché per Cartesio il cogito è l'assolutamente permanente, ma è anche vero perché il cogito è un insieme di idee innate, se invece noi non siamo nient'altro che le nostre esperienze, come diceva Hume e prima ancora Locke, quindi non esiste alcuna idea innata, ecco che anche la garanzia di questo soggetto assoluto viene meno, ecco perché Kant cercherà di recuperare questi concetti.

Hume inoltre si occupa dei principi morali, ovvero quei principi che guidano i nostri comportamenti, il suo compito è infatti esplorare l'intera natura umana, naturalmente anche per quello che riguarda l'ambito morale non potrà che partire dagli stessi presupposti, ovvero per scoprire se esistono dei principi o delle leggi che governano il nostro modo di comportarsi bisognerà partire dalle esperienze e quindi osservare i comportamenti dell'uomo per scoprire se anche per quello che riguarda la morale, come aveva fatto per l'intelletto, sia possibile trovare delle leggi che condizionino il nostro modo di comportarci.
Questa sua concezione è molto importante perché porta Hume a negare qualsiasi morale prescrittiva, ovvero a negare una morale che prescriva determinati comportamenti; infatti per Hume la morale non può che essere descrittiva, ovvero descriva i comportamenti dell'uomo infatti per Hume non esiste nessun parallelismo possibile tra essere e dover essere, ricavare da quello che si osserva dei comandamenti che ci condizionino nel nostro modo di operare è quello che Hume chiama una fallacia naturalistica, ovvero il fatto di ricavare dalla natura qualcosa che viene assunto in un valore universale alla dimensione del dover essere ovvero trasformare ciò che è e che accade in ciò che dovrebbe essere e quindi attenersi ad esso. Questo è molto importante perché colloca Hume in una situazione pericolosa.

Ora se si tratta di osservare bisognerà partire da quelli che sono i momenti che condizionano le nostre azioni cioè le passioni, anche qui cercando di dimostrare che anche per le passioni ci sia una sorta di meccanismo pregresso. Le passioni sono come le sensazioni solo che riguardano le questioni interne e divide quindi tra passioni violente (ovvero che si impongono con forza, come amore, odio, gioia o dolore) e poi ci sono le passioni tranquille (una sorta di sentimento che ci condiziona in modo più pacato e quando non ci sono le altre). Poi stabilisce un'altra divisione, ovvero le passioni dirette (che sorgono immediatamente dall'oggetto come piacere e dispiacere) e poi esistono le passioni indirette (che nascono per cause più complesse come l'orgoglio e che nascono da una relazione ulteriore con l'oggetto).
Le passioni possono anche essere semplici e complesse, semplici sono per esempio il semplice piacere mentre le complesse sono per esempio il timore di essere traditi e sono passioni che non dipendono semplicemente dall'oggetto ma da un certo modo di relazionarsi con l'oggetto.
Come abbiamo detti anche in questo caso si tratta di vedere se esistono delle costanti e se c'è qualcosa che in qualche modo condiziona i miei comportamenti e mi fa prediligere un certo comportamento e quindi il soddisfacimento di una certa passione piuttosto che non il fatto che tutto sia lecito. In realtà partendo da questi presupposti e partendo dal fatto che la morale è sempre selettiva e non è mai corrispettiva e quindi non prescrive nulla ogni comportamento sembrerebbe lecito.
Perché allora alcuni tipi di comportamento senza nessun riferimento a un valore viene avvertito come un atteggiamento negativo?
Hume dice che la morale non è un fatto di ragione quindi è più un senso che un giudizio, è qualcosa che non riguarda tanto le azioni concrete ma il movente, infatti se un uomo fa cadere per sbaglio un oggetto in testa a una persona tuttalpiù lo si può accusa re di essere sbadato ma se quell'uomo lancia volontariamente quell'oggetto in testa a uno tutti considereremmo spregevole questo atti; ciò dimostra che noi giudichiamo il movente e non l'atto, e per Hume questo movente è sempre una passione.
Comunque non si è ancora capito cosa spinge tutti, pur non essendoci una morale di riferimento, a giudicare alcuni fatti riprovevoli e Hume dice che è la simpatia, ovvero il fatto di patire insieme all'altro ed è questa la legge che uniforma i nostri comportamenti morali. Tra l'altro questo non è neanche dettato da pulsioni altruistiche ma per motivazioni egoistiche e sentiamo di non voler essere nei panni dell'altro; ancora una volta viene stabilito il primato del sentire sul capire.
Certo che ancora una volta tutto si riconduce non a qualcosa di necessario ma a qualcosa di soggettivo e anche dal punto di vista morale Hume infligge un duro colpo a chi riteneva che esistessero dei valori assoluti (e che quindi esistesse una morale prescrittiva) e a chi riteneva che esistesse una legge morale, esiste solo questo sentimento morale determinato dalla simpatia.
Come vedremo Kant riprenderà il discorso confermando il primo e negando il secondo.

Marx

Marx porta alle estreme conseguenze quello che Feuerbach aveva detto, infatti arriverà a dire che tutte le caratteristiche cosiddette universali (lo cultura, la religione e la stessa coscienza) non sono nient'altro che sovrastrutture che l'uomo crea sopra quella che è la dimensione fondamentale dell'esistenza, ovvero il sistema di bisogni e il conflitto di natura economica; infatti secondo Marx l'uomo è innanzitutto uno portatore di bisogni e che si evolve da sempre trasformando i sistemi attraverso il quale può soddisfare questi bisogni (l'evoluzione di questi sistemi è la storia dell'economia).
Così come Feuerbach trova la sua origine in Hegel, anche il marxismo può essere considerato figlio dell’hegelismo perché come vedremo Marx farà propri alcuni aspetti dell’hegelismo (in particolare la dialettica e lo storicismo, ovvero la concezione che la storia si muova in direzione di un obiettivo che è già iscritto adesso nelle strutture della storia e che per Marx sarà l'avvento del comunismo).
Uno degli aspetti che distingue Marx da Hegel è, come abbiamo detto, quello dell'importanza che il Marx attribuisce alla prassi; questo primato della prassi Marx lo incarna anche in quella che è la sua produzione teoretica. Il pensiero di Marx quindi si può dividere in tre parti:
1.       fase filosofica, dove prevalgono le questioni di natura teoretica più che di natura sociale e politica e quindi prevalgono le esigenze di tipo filosofico, che in qualche modo è caratterizzata da cinque opere, tra le quali “Differenza tra la filosofia naturale di Epicuro e quella di Democrito”, entrambi questi due filosofi erano degli atomisti ma nelle loro concezione Marx trova una differenza che lo fa tendere di più verso Epicuro che verso Democrito: per entrambi la realtà nasce quando un atomo cambia traiettoria e si scontra con un altro, ma mentre per Democrito questo cambio di traiettoria è casuale, per Epicuro la realtà si forma solamente perché c'è un gesto di libertà.
Ma l'opera più importante di questo periodo è un'opera nella quale il Marx critica esplicitamente Hegel, non a caso si intitola “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico”, una questione che Hegel aveva affrontato in un testo che si intitolava “Lineamenti di una filosofia per il diritto”.
Poi ci sono altre tre opere che sono: “La sacra famiglia”, “Tesi su Feuerbach” e “L’ideologia tedesca” (dove critica gli elementi della ideologia tedesca ed in particolare la sinistra hegeliana)
2.       il secondo periodo lo potremmo definire socio-politico, dove inizia a manifestarsi la sua vena politica e in particolare con due testi: “Miseria della filosofia” (nel quale critica l'atteggiamento utopistico di Prudon) e nel 1848 “Il manifesto del partito comunista”
3.       il terzo periodo è quello che potremmo definire economico-sociale della produzione di Marx, in cui si privilegiano interessi di natura economica. In realtà il primo testo nel quale Marx si occupa espressamente dell'interpretazione delle teorie economiche precedenti è un testo che viene pubblicato nel 1844 e che quindi dovrebbe far parte del periodo filosofico e che si intitola “Manoscritti economico-filosofici”.
I testi che fanno parte di questo terzo periodo sono invece i più famosi: “Lineamenti fondamentali della critica a una economia politica” del 1859 e “Il capitale” nel 1866, che rappresenta la summa del pensiero economico di Marx
Potremmo dire che nella seconda e nella terza fase in realtà Marx cerca di portare a compimento qualcosa che aveva già concepito nella prima fase e che aveva espresso in modo perfetto nella 14ª tesi su Feuerbach dove dice che i filosofi si sono finora limitati ad interpretare il mondo, si tratta ora di trasformarlo, quindi da adesso il compito della filosofia non è solamente conoscitivo, ma diventa anche un compito di trasformare, ovvero la filosofia deve incominciare a delineare un mondo completamente diverso rispetto a quello che aveva caratterizzato il mondo attuale (c'è una critica a Feuerbach perché questo si era limitato ad interpretare il mondo senza capire come si trasformava).
Questa unione tra la dimensione teoretica e la razionalizzazione della nuova filosofia della prassi a concreta azione pratica nel tentativo di sviluppare l'ideale di riforma che poi avrebbe dovuto portare all’atto rivoluzionario si concretizzano in Marx nella prima internazionale socialista del 1874, che termina con l'esperienza della comune parigina.
Come abbiamo detto nella 14ª tesi contro Feuerbach Marx afferma una cosa molto importante, ovvero che i filosofi hanno diversamente interpretato il mondo ed ora si tratta di trasformarlo, perché si tratta di indicare quali sono i meccanismi che presiedono alla formazione delle strutture sociali, culturali e politiche che emergono dal reale, cercando di dimostrare come queste strutture in realtà derivano da una perversa dinamica economica, ovvero sono figlie del conflitto economico, che determina poi un conflitto fra le classi.
Dal punto di vista filosofico la parte più interessante del pensiero di Marx è la critica ha Hegel, che condotta essenzialmente nella “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico”, opera del 1843, anche se in realtà la filosofia di Hegel gli arriva mediata dalla cosiddetta sinistra hegeliana (e in modo particolare da Freuerbach). Marx è uno che sa riconoscere i meriti degli avversari, anche di quelli che critica, e allo stesso modo riconosce i meriti di Hegel:
1.       ha concepito la filosofia essenzialmente come attività laica, tesa a stabilire una superiorità della dimensione filosofica rispetto alla dimensione religiosa
2.       ha saputo cogliere quella che è la molla che muove ogni evento nella realtà, ovvero il conflitto e la dialettica, anche se con un errore perché l'etica hegeliana è legata ancora contenuti di tipo metafisico, mentre per Marx lo spirito dialettico è rappresentato da un materialismo dialettico
3.       Hegel ha individuato nella società civile (che è la seconda figura dell’eticità) come il luogo caratterizzato dai conflitti di natura economica, infatti dal conflitto fra le varie famiglie nascono i bisogni, da queste le classi che soddisfino questi bisogni e che in qualche modo guidino il processo rivoluzionario.
Il limite di Hegel è quello di non aver puntato sull'obiettivo di risolvere i conflitti ma di aver concepito lo Stato come elemento di mediazione di questi conflitti. Le istituzioni per Hegel sono manifestazioni dello spirito e quindi devono necessariamente esserci, questo come abbiamo detto porterà al cosiddetto giustificazionalismo hegeliano che è quanto di più distante dalla concezione marxista, infatti Hegel concepisce l'idea della razionalità dello Stato come qualcosa che precede la realtà concreta, anzi lo Stato come spirito e razionalità ha senso mentre l'individuo concreto non ha senso. Secondo Marx Hegel rovescia i termini della questione perché mette là dove stavano in piedi la testa e viceversa, si tratta quindi di rovesciare il sistema hegeliano per far capire che prima viene la concretezza (che per Marx sono i bisogni di natura materiale del mondo economico) e sopra i conflitti che emergono da questa concretezza viene lo Stato. Per Marx Hegel ragiona come se prima venisse prima l'idea di frutta e poi la frutta concreta, cosa che è assurda infatti è vero il contrario.
Quindi come vediamo in questo Marx è vicino a Feuerbach per quello che riguarda l'attenzione agli aspetti materiali, con una connotazione particolare, ovvero che non si tratta più di interpretare la realtà ma si tratta anche di tradurre quale è il concreto.
Quindi dal punto di vista politico lo stato di Hegel è un'entità astratta, ha quasi una dignità metafisica, ecco perché Hegel non può concepire la ribellione, mentre come sappiamo per Marx il gesto rivoluzionario e ciò che avrebbe dovuto far sorgere una nuova società.
Per essendo più vicino a Feuerbach Marx non si fa scrupoli e critica anche la sinistra hegeliana, perché anche loro hanno concepito una critica al razionalismo hegeliano mettendo però in primo piano la dimensione del pensiero rispetto alla concretezza. Feuerbach ad esempio crede che si possa ridurre la dinamica politica ad antropolicizzazione della teologia, ma Marx non si limita a criticare Feuerbach ma anche tutti quei socialisti utopisti della sinistra hegeliana che per Marx non hanno capito che i veri meccanismi che governano l'ambito sociale e per questo ritengono che cambiando le istituzioni (ovvero attraverso tutta una serie di riforme politiche) si possa risolvere problemi di giustizia sociale ed economica che sono presenti all'interno della realtà. Per Marx è vero piuttosto il contrario perché solamente eliminando quelle che sono le cause che portano ad istituzioni e leggi ingiuste si può risolvere il problema. È un atteggiamento miope quello dei membri della sinistra hegeliana perché non vedono dove sta l'origine dei problemi sociali, che non sta in leggi sbagliate ma nella presenza delle classi che determina la lotta fra le classi; infatti il comunismo non sarà l'avvento della classe proletaria ma sarà presente solamente quando non ci saranno più le classi.
La colpa dei socialisti utopisti e quella di combattere più contro delle idee, ritenendole espressione compiuta del mondo reale, piuttosto che contro il mondo reale contro il quale bisognerebbe combattere. Nessuno di loro ha indagato la storia in modo scientifico (ovvero cercando di leggere nella storia quello che dimostra) per vedere che il sistema dei bisogni ed i tentativi di soddisfarli e stanno all'origine dei conflitti sociali.
L’origine della disuguaglianza sta nell’istituzione della proprietà privata (come diceva Roussoe), perché proprio l'istituzione della proprietà privata e l'affermazione di una classe che incomincia a detenere i mezzi di produzione e che quindi usa altri individui, questo è ciò che si pone all'origine delle disuguaglianze che per Marx è l'essenza dell'età industriale, ovvero il sistema di alienazione che riguarda il mondo industriale. Marx esprime questa critica nei “Manoscritti economico-filosofici”, nel quale incomincia a confrontarsi con i grandi teorici dell'economia liberale, anche allora riconoscere i meriti (ad esempio il fatto di aver individuato nell'atto economico l'elemento originario di tutti gli aspetti dell'uomo). Alcuni di loro hanno addirittura affermato il valore del lavoro, come elemento determinante per stabilire il valore di una determinata cosa, ma quello che piace di più a Marx è l'aver identificato nell'importanza della struttura economica nel determinare la nascita delle istituzioni politiche, rovesciando un dato che si dava per scontato, ovvero che l'economia dipendesse dal governo e dal potere. Non è quindi il sistema socialdemocratico che afferma la mentalità capitalista borghese e quindi l'economia liberale, ma è contrario e infatti l'economia liberista che dà origine a quelle determinate situazioni.
Ciò che non hanno capito è il fatto di aver presentato alcune categorie che riguardano l'economico non come categorie storiche ma come categorie naturali, ovvero che avevano già la loro giustificazione nello stato di natura, come avviene per la proprietà privata. Invece anche la proprietà privata non è naturale ma è qualcosa di storico perché dipende dal fatto che ad un certo momento qualcuno ha deciso di stabilire una distinzione tra chi pensa e chi lavora. Ciò è dimostrato dal fatto che dopo che si è ideata la proprietà privata si è subito determinata una distinzione tra sfruttatori e sfruttati. Naturalmente il concetto di proprietà privata è venuto fuori grazie all'economia capitalista, dove la proprietà ha assunto il volto del denaro e del capitale.
Nel mondo capitalista della società industriale, che ne è espressione, si raggiunge il compimento della distinzione che ha segnato fin dagli inizi il conflitto tra le classi, ovvero quella distinzione fra chi possiede i mezzi di produzione e chi non li ha e quindi deve lavorare. Si è venuta a creare per la prima volta quella relazione, che per Marx c'è da sempre, tra possesso dei mezzi di produzione e rapporti sociali di produzione (fra chi produce per sé e chi fa produrre per altri). Questa caratteristica propria dell'economia borghese nasce in un momento preciso, ovvero quando inizia la distinzione fra chi lavora con la testa e chi lavora con il corpo, fra chi va in direzione di quello che dovrebbe realizzare la società comunista (ovvero la società delle libertà dallo sfruttamento dalla fatica del lavoro) ma che riesce a raggiungere questa libertà perché sfrutta chi lavora per lui, mentre per Marx tutti devono essere ugualmente liberi. Quindi è il momento della negazione nel quale una parte della società deve alienare se stessa e per dimostrare quanto la società capitalista stia facendo ciò Marx in un testo dimostra che nella società industriale il concetto di lavoro come oggettivazione dell'individuo (ovvero la trasformazione dell'individuo lavoratore in oggetto) e il concetto di alienazione.
Nella società industriale Marx dice che l'operaio è separato tre volte da se stesso e dalla propria natura. L'alienazione non è un concetto che inventa Marx, ma in un certo senso già ne aveva parlato Hegel  che però era un concetto positivo (anche Feuerbach ne aveva parlato). Ma Marx l’alienazione si compie in tre momenti:
1.       l'uomo si aliena dal prodotto del proprio lavoro, perché con la settorializzazione e della divisione del lavoro l'uomo non produce più l'oggetto ma produce una mansione e l'oggetto non appartiene più a lui
2.       l'operaio è alienato dalla propria attività produttiva e dalla propria creatività, perché sempre a causa della settorializzazione e della divisione del lavoro l'uomo non va più in direzione della creatività ma ripete un'unica mansione che lo lega alla macchina
3.       essendo l'uomo un homo faber se viene privato di queste due cose viene anche privato della sua esistenza e quindi alla propria umanità
A partire da questa situazione Marx “Nell’ideologia tedesca” approda ad un altro concetto fondamentale, ovvero quello dello storicismo materialista, ovvero una concezione di una storia che si evolve ed ha dei fini già prescritto in sé, ma naturalmente questo fine in sé che è già prescritto trova la propria molla evolutiva non nella razionalità dello spirito ma in elementi di tipo materiale.
Il titolo ci fa capire che in quest'opera Marx critica l'ideologia tedesca, ovvero polemizza contro ogni forma di idealismo ed intellettualismo che caratterizza la cultura del suo tempo, perché anche la cultura tedesca alla quale si sta rivolgendo ha un limite, ovvero quello di partire e basarsi dalle idee e non dei fatti, ovvero ancora troppo intrisa di idealismo ed hegelismo, ovvero ritiene che sia al pensiero a determinare i fatti. Ma Marx ritiene che è vero il contrario ovvero che sono i fatti (i meccanismi dei conflitti di tipo sociale) che plasmano formano il pensiero. Non esiste quindi la coscienza e neanche il soggetto che pensa e interpreta la realtà e la trasforma, per questo Marx è uno dei tre maestri del sospetto, infatti anche lui porta un attacco decisivo alla coscienza (a quell'elemento che nella filosofia precedente era considerato centrale). La coscienza non è un fatto assoluto, non è qualcosa che è ma è qualcosa di che diviene, è dice Marx un fatto sociale, un prodotto sociale. Non solo ciò che gli individui sono ma anche ciò che gli individui pensano dipendono dalle loro concrete situazioni di vita, ecco perché la filosofia deve trovare come punto di partenza non le idee o nell'interpretazione del reale ma negli individui reali, ovvero quegli individui che vengono analizzati, interpretati e compresi a partire dalla loro concreta situazione sociale e dai loro concreti bisogni. Ecco perché Marx diffida anche delle cosiddette concezioni antropologiche universali (ovvero quelle che danno una descrizione dell'uomo a carattere universale), perché non esiste l'uomo universale perché l'uomo è sempre figlio delle proprie condizioni di vita economica che lo determinano. Non esiste l'uomo naturale ma esiste soltanto l'uomo storico (ecco perché storicismo) e l'uomo storico è l'uomo materiale, ovvero quello che ha dei bisogni economici che deve soddisfare (non è quindi la natura la dimensione peculiare dell'uomo ma è la storia). Siamo quindi di fronte a un rovesciamento di ciò che diceva Hegel, infatti per Hegel c'è la storia che giustifica gli individui mentre per Marx ci sono gli individui storici che sono anch'essi conseguenza della storia ma che fanno la storia attraverso i loro conflitti di natura economica e materia.
L'uomo si differenzia dall'animale per il fatto che l'uomo progetta un sistema che prevede la possibilità di soddisfare tali bisogni, mentre gli animali reagiscono in modo immediato al bisogno, la soddisfazione dei bisogni dell'uomo è qualcosa di più complesso, l'uomo diventa l'animale che crea gli strumenti tecnici per superare propri bisogni, l'umanità quindi non nasce quando l'uomo raccoglie la mela dal ramo più basso, ma quando inventa la scala che gli permette di raggiungere la mela che sta sul ramo più alto, ovvero quando inventa i mezzi di produzione. Ma quando iniziano a comparire gli strumenti incomincia comparire anche la differenza tra chi ha inventato lo strumento e lo possiede e chi non l'ha inventato e che in qualche modo viene sfruttato da chi lo possiede per sopravvivere.
La natura quindi non è la dimensione peculiare dell'uomo perché l’umanità nasce quando l’uomo usa il cervello ed inventa i mezzi di produzione, la distinzione dalla quale si origina lo sfruttamento delle classi è caratterizzato dalla separazione tra chi lavora e chi pensa (o non lavora con le mani) e riguarda i mezzi di produzione, perché chi detiene i mezzi di produzione incomincia a diventare colui a cui spetta il consumo e la fruizione del lavoro degli altri.
La storia si evolve attraverso una meccanismo che porta ogni volta che si trova mezzo che ci permette di soddisfare un bisogno, all'evoluzione dei nuovi bisogni che creano l'esigenza di nuovi mezzi di produzione. Ogni immissione di mezzi di produzione va ad alterare quelli che Marx chiama rapporti sociali di produzione, che poi sono i rapporti fra le classi. Quindi in ogni società ci sono state le classi e le classi in generale sono divise tra le classi degli sfruttatori e quelle degli sfruttati, questo determina un conflitto e proprio questo conflitto e soprattutto l'evoluzione dei mezzi di produzione che determina cambiamenti all'evoluzione della storia. Ovvero ogni società in qualche modo evolvendosi, cioè evolvendo i mezzi di produzione e quindi i rapporti sociali di produzione, crea i presupposti di ciò che la elimineranno (così come la società feudale ha creato la borghesia, che poi la eliminata, il sistema borghese sta creando la classe che sarà destinata a sostituirla che la classe proletaria).
Quindi un materialismo storico è una storiografia che vede nelle strutture economiche le strutture fondamentali della società e che ritiene che tutto ciò che in qualche modo viene partorito dalla società (la cultura, la religione, le istituzioni politiche, la stessa soggettività, eccetera) sono sovrastrutture, però sono frutto delle strutture economiche (cioè dipendono dalle strutture economiche).
Già nell'ideologia tedesca Marx non si limita all'ambito economico ma si rivolge già al futuro, ovvero la distinzione attraverso uno studio scientifico della realtà economica e sociale presente è ciò che permette una corretta delineazione del futuro. Questa prospettiva che viene abbozzata nell'ideologia tedesca viene per la prima volta formulata in un modo uno poco più compiuto nel manifesto del partito comunista, nel quale si comincia prefigurare quale dovrà essere necessariamente il percorso della storia secondo Marx, ovvero l'approdo alla società comunista, ovvero quella società in cui si mettono in comune i mezzi di produzione (in realtà questa idea era già stata usata da molti come Platone, Campanella, Moore, Babeuf e altri). Marx però ritiene che la sua società comunista debba avere dei caratteri diversi, ovvero non nasce da una costruzione utopica (ovvero non delinea una realtà che non c'è ma dovrebbe esserci) perché per Marx il comunismo è una realtà, non è qualcosa che potrebbe giungere a realizzarsi ma è qualcosa che c'è scritto nella storia e necessariamente arriverà.
Ma quali saranno le caratteristiche di questa società? Su questo fatto Marx rimane abbastanza oscuro anche nel manifesto del partito comunista, infatti questo tipo di società viene più che altro accennata e descritta; quello che gli preme di sottolineare è che il comunismo si sta costruendo anche adesso e troverà un suo compimento quando verrà oltrepassata l’economia di tipo liberale, la quale ha portato al punto più alto lo scontro tra le classi per quello che riguarda i rapporti di tipo sociale tra le classi. Mai lo sfruttamento ha raggiunto queste proporzioni e soprattutto è diventato un elemento costitutivo affinché la società industriale possa funzionare, tutto si basa sull'aumento del capitale e questo giustifica ogni cosa.
Ma per Marx, affinché si realizzi questo passaggio, sono necessarie due premesse che sono fondamentali:
1.       lasciar compiere fino in fondo il processo capitalista, alla fine della quale esploderà la rivoluzione che porterà sovvertire i rapporti tra le classi. Questo avverrà naturalmente nei paesi più progrediti (Inghilterra, Francia, Germania, eccetera)
2.       che si affermi l'ultima fase del capitalismo, ovvero il mono-oligopolismo finanziario, cioè il fatto che la ricchezza si concentri sempre in almeno mani
A questo punto il contrasto delle classi sarà evidentissimo e chi è espropriato di tutto non potrà che ribellarsi appropriandosi dei mezzi di produzione.
Secondo alcuni questa scientificità che prefigura già quello che verrà è stato definito fatalismo rivoluzionario, ovvero se tutto è già scritto che tipo di ruolo può avere la classe proletaria per realizzare questa rivoluzione, come sappiamo Marx elabora questa teoria per non cadere in quello che lui chiamava velleitarismo romantico (ovvero la volontà di fare qualcosa senza poi di non avere gli strumenti adeguati per poterla fare) ma rimane comunque il problema che se tutto è già deciso ed è già determinato il ruolo anche della classe rivoluzionaria per eccellenza non può che essere un ruolo passivo. Marx utilizza due categorie fondamentali per dare importanza al gesto rivoluzionario, la prima è la consapevolezza del ruolo rivoluzionario (che si avrà quando saranno realizzate le due premesse fondamentali) e la seconda è chiamata da Marx l'iniziativa trasformatrice delle masse, ovvero una volta raggiunta la consapevolezza del proprio ruolo l’iniziativa trasformatrice sarà il gesto rivoluzionario che dovrà determinare la rivoluzione. Quindi secondo Marx la rivoluzione nasce da questo rapporto congiunto fra la storia e gli individui.
Secondo Marx comunque è importante che la società comunista non venga vista come una mera riforma dell'esistente, ovvero il comunismo non dovrà essere la società industriale emendata dallo sfruttamento (non dovrà essere una riforma della società attuale), la società comunista è quella nella quale si andranno definitivamente a modificare le cause che hanno generato fino ad oggi lo sfruttamento del conflitto che caratterizza i rapporti sociali tra le classi. La società comunista e anche la creazione di un nuovo modello di umanità, ovvero produrrà un uomo nuovo ma soprattutto libera dallo sfruttamento e dalla fatica (libera dalla costrizione di chi detiene i mezzi di produzione). Questo potrà avvenire solo quando si sopprimerà il caposaldo della società capitalista, ovvero la proprietà privata dei mezzi di produzione, quindi bisognerà passare alla proprietà collettiva dei mezzi di produzione. A quel punto, venendo meno quella che all'origine di tutti i conflitti sociali e quindi l'origine della distinzione in classe, verranno anche meno le classi (quindi il comunismo non è la società nella quale il proletariato al potere). Come vedremo questo dipende dal fatto che secondo Marx ad un certo punto lo Stato avrebbe dovuto estinguersi, perché lo Stato, inteso come quella totalità di norme giuridiche intese a preservare fondamentalmente la proprietà privata, una volta che viene meno alla proprietà privata, non ha più ragione di esistere; paradossalmente la collettivizzazione dei mezzi di produzione per Marx avrebbe dovuto portare all'annullamento dello stato (a differenza dell'anarchismo che vuole la distruzione del potere), anche se in realtà nel passaggio dalla società capitalista a quella socialista un po' di Stato ci vuole, ovvero c'è il momento della cosiddetta dittatura del proletariato, ma poi questo momento è destinato a passare.
Come sappiamo nel manifesto del partito comunista Marx elogia la borghesia, perché la definisce la classe più rivoluzionarie, infatti la borghesia ha permesso il passaggio dalla società feudale alla società capitalista che per certi versi è migliore di quella feudale, inoltre ha messo l'accento dinamico sull'economia (mentre nella società feudale l'economia è chiusa) ed ha promosso lo sviluppo scientifico e tecnologico, che ha portato ad un miglioramento delle condizioni dell'uomo. Soprattutto la società borghese ha mosso l'attenzione sul fatto concreto piuttosto che non solo astratto (ovvero dato più importanza alla dimensione mondana della vita piuttosto che non alla dimensione trascendente). Tutti questi fattori hanno permesso alla società borghese di creare una società più ricca, ma il suo limite è il fatto che ha realizzato tutto ciò sul fondamento di un'ingiustizia, ovvero sull'accentuazione sempre più evidente di uno sfruttamento (dell'imprenditore nei confronti dell'operaio). Proprio per questo la borghesia non si rende conto di essere come l'apprendista stregone, ovvero come colui che mentre realizza se stesso evoca anche quelle che saranno le forze destinate a distruggerlo (ovvero le masse proletarie).
Nel manifesto di Marx critica anche quelli che vengono considerati i tre momenti del socialismo, ovvero il socialismo rivoluzionario, quello conservatore-borghese e il socialismo critico-utopistico, perché tutti e tre tendono a voler riformare l'esistente e non si rendono conto che invece per risolvere definitivamente il problema dello sfruttamento bisogna eliminare le cause di tale sfruttamento.
Tuttavia dalla società comunista comunque sappiamo poco e lo stesso manifesto fa capire di essere esso stesso una esortazione perché si conclude con una esortazione “proletari di tutto il mondo unitevi”. Quindi la realtà può essere modificata solamente attraverso la trasformazione dei processi di natura economica, ecco perché l'ultima parte del pensiero di Marx è fondamentalmente deputata ad indagare scientificamente l'ambiente economico. Capolavoro di questo periodo è il capitale, nel quale Marx vuole indagare scientificamente (ovvero criticamente) le strutture economiche; scopo fondamentale è quello di individuare quali sono le categorie fondamentali dell'economico e di criticare loro presupposti naturalistici (ovvero criticare i loro presupposti di essere universali).
Secondo Marx nel capitale non si deve più seguire l'andamento della ricerca intellettuale (ovvero quello della teoria-prassi-teoria), ma si deve passare alla pressi-teoria-prassi, ovvero si parte dalla scelta di trasformare operativamente la realtà, si passa poi alla teoria per vedere quali sono i presupposti dalla realtà, per poi tornare di nuovo alla prassi una volta che ho capito quali sono i fondamenti categorici dell'economico a questo punto posso agire effettivamente una prassi efficace.
Anche il capitale si apre attraverso una rilettura sia delle teorie economiche di precedenti (nel tentativo di determinare quali siano gli elementi di degenerazione) sia di alcuni pensieri filosofici dominanti nell'epoca precedente. Potremmo dire che nel capitale di Marx utilizza a piene mani il pensiero hegeliano, stabilendo che in ambiente economico tutto è basato su una dialettica conflittuale (ovvero che la società è conflitto), stabilendo un ruolo fondamentale alla negatività, ovvero il negare qualcosa come elemento positivo, ma soprattutto nella convinzione che esista una intrinseca razionalità in ciò che avviene nella storia, perché anche la società capitalista e più razionale della società feudale, perché tutto si muove in direzione del meglio e questo è quello che viene chiamato storicismo marxista.
Nell'analisi della tradizione precedente Marx prende spunto da una categoria che era già stata utilizzata, ovvero la categoria di merce, intendendo per merce un oggetto caratterizzato da un determinato valore che viene prodotto, commercializzato e consumato. Proprio l'analisi di Marx sul concetto di merce inizia a far sì che successivamente a lui si possa parlare anche dei beni come una merce.
Lettura “Che cosa è la merce”
La merce essenzialmente è qualcosa che ha un valore d’uso (per esempio la penna a come valore d'uso il scrivere), il valore d'uso è ciò che si realizzano nel consumo. La merce però è qualcosa di strano perché presenta dei valori che non si manifestano nell'oggetto in quanto tale e questo si chiama valore di scambio delle merci. È chiaro che questo tipo di valore diventa importante in una società che fa del capitale l'elemento più importante, perché alla base del capitale ci sta la circolazione delle merci e la circolazione delle merci è permessa là dove io posso scambiare una cosa con un'altra diversa da essa (per esempio una capra con una casa). Se ci fosse solo il valore l'uso io potrei cambiare le cose solo con altre cose identiche ad esse, il valore di scambio invece mi permette di scambiare cose diverse tra di loro; quindi la ricchezza si determina sul valore di scambio. Mentre il valore d'uso si basa sulle qualità, il valore di scambio si basa essenzialmente su rapporti di tipo qualitativo.
Ma cosa stabilisce il valore di scambio di una cosa? Marx dice che il valore di scambio si stabilisce dal lavoro che è stato fatto per realizzare una determinata merce. È chiaro che anche questo è una cosa che è già stata fermata in precedenza; si arriva quindi alla coincidenza fra lavoro e valore, come aveva già detto Locke (e Smith).
Una volta che è stato stabilito Marx inventa due categorie fondamentali che secondo lui caratterizzano il capitalismo, ovvero le categorie di capitale e di reddito. La legge che presiede l'economia capitalista è quella di aumentare quanto possibile il reddito perché ciò che conta è accumulare sempre di più capitale; questo è possibile aumentando il profitto rispetto ai costi. Ma i costi sono determinati dal costo delle materie prime ma anche da una merce particolare, ovvero il lavoro, quella merce che qualcuno mette a disposizione di qualcun altro che possiede i mezzi di produzione per realizzare la produzione, ma questa merce è anche quella che determina il valore di scambio del prodotto finito, quindi poiché chi lavora aumenta il valore di una determinata merce dovrebbe essere chi lavora a trarre un profitto. Invece è chi non lavora che trae profitto dal lavoro degli altri. Questo è determinato anche dal fatto che l'imprenditore tende a ridurre il lavoro a una merce come tutte le altre, ma normalmente ogni merce si paga in base al valore di scambio che ogni merce ha (il lavoro quindi è l'insieme delle forze fisiche e morali che producono un qualunque valore d’uso di ogni specie); ma in realtà la merce-lavoro corrisponda tutti quei mezzi di sussistenza che sono necessari all'operaio per mantenere in vita se stesso e la propria famiglia. Quindi quando l'imprenditore compra la merce-lavoro paga una quota di salario che sarà necessaria per mantenere in vita l'operaio e la sua famiglia e su questo si basa la teoria del plusvalore.
Ovvero se un operaio lavora 12 ore il capitalista dà all'operaio una salario che in realtà corrisponde a 6 ore di lavoro, mentre le altre 6 ore sono il plusvalore che l'imprenditore si prende e che gli permette di accumulare il suo capitale. Quindi il capitalismo preleva una parte del lavoro dell'operaio e se lo tiene, il capitale quindi diventa lavoro morto resuscita come un vampiro, perché succhia il lavoro dall'operaio. Ma in realtà per Marx il capitale si divide in capitale fisso, che è quello che non riguarda il lavoro e corrisponde ai macchinari, mentre il capitale circolante è quello che riguarda il lavoro.
Compito dell'imprenditore è quello di cercare di aumentare il proprio capitale, ora poiché il valore di una merce è determinato dal lavoro, secondo questa teoria, in realtà può essere modificato solo dal capitale circolante (ovvero lavoro), quindi è chiaro che l'imprenditore dovrà agire su questo se vorrà ottenere sempre più valore, dovrà sfruttare sempre di più quello che il capitale circolante e quindi il lavoro dell'operaio.
Questo modello si basa secondo Marx sulla trasformazione completa di tutti quelli che erano i sistemi produttivi precedenti, ovvero mentre prima il sistema era merce-denaro-merce (quindi si partiva dalla merce, si otteneva denaro per arrivare nuovamente alla merce), il sistema capitalista rovescia questo sistema e si basa su denaro-merce-denaro, ovvero alla fine era l'inizio del processo produttivo non c'è la merce ma c'è il denaro, quindi la merce non è nient'altro che qualcosa di indispensabile per creare più denaro.
Lettura “La distinzione tra M-D-M e D-M-D”
Il capitalismo secondo Marx si basa essenzialmente sulla mancanza di limiti, infatti, mentre la merce è limitata per sua stessa natura perché è qualcosa di fisico, il denaro, proprio perché è qualcosa di virtuale, è qualcosa che tendenzialmente è illimitato.
Nel sistema M-D-M ciò che domina nella categoria delle merci, ovvero la categoria del bene, il sistema capitalistico invece trae la sua origine nella dimensione della vendita e non dell'acquisto, ovvero l'acquisto di merce non è dovuto a una mia esigenza ma è funzionale alla vendita successiva, ovvero il guadagno. È chiaro che all'interno di questo modello il profitto diventa l'elemento essenziale e per raggiungere il profitto qualsiasi cosa è ritenuta legittima. Ora è chiaro che un imprenditore cercherà di aumentare sempre di più il capitale attraverso due sistemi o aumenta le ore di lavoro degli operai oppure diminuisce i salari, tutto questo non potrà che basarsi su delle condizioni di sfruttamento. Ma c'è un problema, infatti quando non si possono più abbassare i salari o aumentare le ore di lavoro, se no l'operaio morirebbe, si creano i presupposti per la rivoluzione.

Ludwing Feuerbach

È il massimo esponente della sinistra hegeliana.
Dopo la morte di Hegel, nel 1831 si vennero a formare due filoni:
·         Destra hegeliana con atteggiamenti conservativi, che riponevano la massima fiducia nell’elemento teologico
·         Sinistra hegeliana con posizioni progressiste

Feuerbach non si identifica come hegeliano, in quanto ad un certo punto la sua filosofia si distacca completamente da quella di Hegel; studia teologia all’università, come Hegel, ma l’eccessiva teologia lo spinge ad avvicinarsi alla filosofia.
Successivamente Feuerbach si reca a Berlino, dove prende parte alle lezioni di Hegel: il resoconto, che fa in una lettera scritta al padre, è esaltante, affermando che Hegel era un bravissimo insegnante. Questa fantastica adesione all’hegelismo, portò i critici a crederlo un seguace e un sostenitore di Hegel.
Nel 1835 Feuerbach scrive un libro per confutare Bachman, che aveva scritto “L’anti-Hegel”; questo atteggiamento fa si che, quando Feuerbach pubblica “La critica alla filosofia hegeliana” nel 1839,  i suoi sostenitori, come Rosenkratz, si meraviglino. Quest’ultimo capì, quindi, che la stima di Feuerbach nei confronti di Hegel fosse per la sua statura di filosofo. Però Feuerbach nel 1940 continua a sostenere che nessuno più di Hegel gli avesse mai fatto capire cosa fosse un maestro.
Ciò che meraviglia di più è il fatto che Feuerbach, per criticare Hegel, utilizza le stesse basi di Bachman, ovvero l’incapacità di Hegel di scindere nettamente teologia e filosofia: infatti la “Filosofia dello spirito assoluto” era una teologia mascherata, perché stabiliva un principio esterno (non sensibile) per l’origine di ogni cosa presente nella realtà o nella storia; viene quindi esclusa la temporalità concreta, che è irrilevante, perché l’unica cosa importante è l’eternità di Dio e dello spirito.
Feuerbach invece ritiene che si debba prestare maggiore attenzione alla temporalità della vita; a questo proposito nel 1843 scrive “Principi per una filosofia dell’avvenire”, contro la filosofia hegeliana che non concepisce l’avvenire: esso può essere tale nella misura in cui si è aperti al cambiamento e alla trasformazione, mentre la storia hegeliana presenta adeguamento alla razionalità dello spirito.
Feuerbach però critica altri due aspetti:
Filosofia palogistica: ingloba tutto nella logica e nel sistema razionale, in cui ogni cosa si giustifica e in cui esistono differenze, ma che sono risolte nella razionalità dello spirito
Hegel non aveva concepito la distinzione tra corpo ed anima
Tutti quindi avevano mosso una critica in direzione della concretezza: l’hegelismo concepisce una realtà ultraterrena, come elemento giustificante di ciò che avviene nella vita; bidogna ricondurre quindi tutto ai fatti. Feuerbach ritiene che Hegel abbia eliminato la dimensione sensibile; questa concezione coincide con il sensismo feuerbachiano: il principio non consiste in un principio filosofico, ma prefilosofico e quindi concreto che bisogna recuperare. La realtà non è unitaria, ma caratterizzata dalla differenza: tutto deriva dai soggetti, che sono sempre soggetti puri; mentre per Marx la relazione soggetto-oggetto si svolgeva in un conflitto economico, per Feuerbach in amore.
Feuerbach afferma che si deve porre al centro di tutto l’uomo; cerca infatti di ridurre la teologia in antropologia: vuole dimostrare che l’argomento principale della teologia, ovvero Dio, non è nient’altro che qualcosa costruito dall’uomo e in cui l’uomo proietta se stesso, o meglio aliena se stesso. Per lui quindi la religione è la scissione dell’uomo da se stesso, la proiezione dell’uomo in qualcos’altro, ovvero Dio.
               
Lettura “La religione come scissione dell’uomo con se stesso”
L’uomo ha voluto contrapporre a sé qualcosa che rappresenti la possibile soluzione delle sue contraddizioni nella religione: costruisce come oggetto quella parte di lui che non conosce, il suo ignoto. Ciò riguarda la dimensione antropologica, ovvero la relazione dell’uomo con se stesso.
Che esistano elementi di congruenza tra umano e divino p rappresentato dalla scissione delle loro caratteristiche: quelle che vengono attribuite a Dio rappresentano una contraddizione a quelle umane. Ciò ci fa capire che tra i due esiste una congiunzione: Dio rappresenta l’oggettivazione dell’intelletto di alcune caratteristiche umane; l’uomo avverte dentro di sé la pulsione verso l’infinito, così crea un’imago e gli attribuisce tutte le caratteristiche che a lui mancano.
Per Feuerbach quindi Dio non esiste, ma è solo una proiezione dell’umano. L’uomo essendo finito non può raggiungere tutto quello che vuole, allora se ne priva e lo proietta in qualcos’altro. Questa sua tendenza ad antropomorfizzare Dio deriva dal fatto che egli è una proiezione dell’uomo, un’oggettivazione dell’intelletto e rappresenta la parte più perfetta dell’uomo, mentre la parte più imperfetta è il cuore che rappresenta le passioni. Dio = uomo privo di cuore.
Ogni cosa che mettiamo in Dio è qualcosa che togliamo a noi, o meglio ogni nostra mancanza è proiettata in Dio.

Scheda: “Quanto più metto in dio, tanto più tolgo a me stesso”
Ogni uomo proietta in Dio ciò che gli manca, quindi nella sua figura si recupera ciò che all’uomo manca. Tutte le religioni si fondano sul disprezzo dell’uomo, che si esalta solo quando egli si riconosce inferiore al Dio; il compito della religione è quindi quello di negare l’uomo, perciò vivere per Dio significa vivere contro l’uomo. Tuttavia è vero anche il contrario, ovvero vivere secondo i presupposti che fanno l’uomo la ragione dell’esistenza.
Il Cristianesimo afferma il Dio-uomo e si muove nella stessa direzione della filosofia: riconoscere il primato dell’uomo rispetto a tutto il resto; bisogna quindi eliminare il sostantivo di divinità al Dio-uomo, facendo diventare l’uomo-Dio (Nietzsche).
L’uomo quindi è ciò che di più alto è presente nella realtà.

Popper Karl

La critica più radicale contro il verificazionismo proviene da fuori il circolo di Vienna, ma non fuori dal neopositivismo. O meglio, non si sa se Popper sia un neopositivista eretico o un filosofo epistemologico, ma egli va comunque in direzione del neopositivismo, come testimoniano molti scritti di filosofi successivi. In molte sue opere e, soprattutto, in “Logica della scoperta scientifica” Popper afferma di non essere positivista, perché riteneva di non partecipare alla definizione di concetto di sensatezza, propria della scienza. Tuttavia il fatto che se ne discuta, ci fa pensare che probabilmente Popper sia, in parte, un neopositivista: gli epistemologi successivi affermano che egli appartiene alla corrente neopositivista, poiché la ricerca di criteri di demarcazione tra scienza e non scienza è centrale nel movimento.
L’elemento catalizzatore è la volontà di determinare in modo rigoroso quali siano i limiti e le caratteristiche della razionalità scientifica e quali siano le differenze con gli altri tipi di razionalità. Una delle principali differenze è la critica alla metafisica: Popper affida ad essa un contenuto di senso, non di insensatezza, tuttavia non è scientifica. La sensatezza ricopre due ambiti:
·         Razionalità non scientifica
·         Razionalità scientifica
Spiega ciò con una metafora: “tutte le navi possono circolare nel mare della conoscenza, ma di esse solo alcune hanno la struttura delle navi scientifiche, che sono le migliori”.
Popper prende le distanze da Schlick: le teorie scientifiche sono quelle teorie che possono essere smontate o falsificate, mentre quelle che sono dimostrabili con l’esperienza sensibile non sono scientifiche (per Schlick e i neopositivisti era l’esatto contrario); l’eccessiva capacità di una teoria di essere verificata, ovvero che le sue ipotesi valgono in ogni caso, è ciò che gioca a sfavore di essa e che la rende non scientifica.
La questione viene affrontata da Popper all’inizio del ‘900, periodo in cui molte teorie presumevano di essere scientifiche. In “Congetture e confutazioni”, per analizzare questo punto, parte dall’analisi di ciò che accadeva al circolo di Vienna nei primi due decenni del 1900.

Scheda: “Congetture e confutazioni”, capitolo I
Popper si presenta come filosofo della scienza e si pone immediatamente una domanda: quando una teoria si può dimostrare scientifica? egli non vuole stabilire se una teoria è vera o falsa, ma solo demarcare ciò che è scientifico, e magari falso, da ciò che non è scientifico (pseudoscientifico), e magari vero.
Il fatto che qualcosa si presenti sempre come vero, può essere smontato da una sola osservazione: infatti molte discipline ritenute scientifiche, come l’astrologia, presentano un contenuto osservativo enorme; esse non sono scientifiche perché funzionano sempre: i dati osservativi della realtà vengono piegati per adeguarli ad essa, rendendo la teoria sempre vera.
Quattro teorie andavano per la maggiore in quegli anni:
·         teoria della relatività di Einstein
·         materialismo storico di Marx
·         psicoanalisi di Freud
·         psicologia individuale di Adler (ogni nostro comportamento è determinato dal fatto che ogni individuo si vuole sottrarre da una situazione di inferiorità, cercando di dimostrare la sua superiorità psicologica)
Esse si presentavano come teorie scientifiche, ma Popper afferma che, in realtà, una solamente era scientifica, ovvero la teoria della relatività di Einstein; le altre 3 teorie erano pseudoscientifiche, perché le loro giustificazioni erano ovunque osservabili: ogni caso poteva essere giustificato, perché poteva essere letto nei termini della teoria di riferimento e quindi visto come conferma. Ciò è impossibile, perché deve esistere almeno un caso che possa smentire la teoria; la sua mancanza porta quindi ad una diminuzione della scientificità della teoria stessa.
La teoria di Einstein si differenzia però dalle altre, perché prevedeva almeno un caso che smontasse un suo postulato, ovvero il fatto che la luce non è materia, ma soggetta all’attrazione; quindi un raggio di luce che passa vicino ad un pianeta non è rettilineo, ma subisce uno spostamento a causa della forza di gravità. Ciò però poteva anche non verificarsi e quindi la teoria sarebbe stata smentita. Le osservazioni eseguite dall’astrofisico inglese, Arthur Eddington, hanno accertato e non verificato, la teoria: l’hanno quindi rafforzata. La teoria di Einstein quindi è scientifica, in quanto una parte di essa può ancora essere smentita dall’osservazione.
Popper credeva infatti che l’elemento che determinasse la scientificità di una teoria fosse quanto essa è rischiosa; altro elemento è che la teoria deve porsi in contrasto netto con le teorie precedenti, cambiando radicalmente il paradigma ed entrando in contrasto con ciò che si affermava prima. Più una teoria entra in contrasto con ciò che si riteneva valido in precedenza, più essa è rischiosa e più è valida, ovvero scientifica.

Popper arriva quindi a formulare 7 conclusioni:
e’ facile ottenere delle conferme, o verifiche, per quasi ogni teoria – se quel che cerchiamo sono appunto le conferme”: è facile quindi costruire una teoria che cerchi sempre potenziali conferme di se stessa
le conferme dovrebbero valere solo se sono il risultato di previsioni rischiose; vale a dire, nel caso che, non essendo illuminati dalla teoria in questione, ci saremo dovuti aspettare un evento incompatibile con essa – un evento che avrebbe confutato la teoria”: una teoria è valida solo se si presenta come rischiosa, ovvero contiene al suo interno tutti i casi in cui essa potrebbe essere smentita; bisogna costantemente evidenziare questo rischio
ogni teoria scientifica <<valida>> è una proibizione: essa preclude l’accadimento di certe cose. Quante più cose preclude, tanto migliore essa risulta”: una teoria scientifica proibisce che valgano determinati eventi, poiché più proibisce, meno probabile è e più scientifica è; essa è quindi ampliativa nei confronti della conoscenza della realtà
una teoria che non può essere confutata da alcun evento concepibile, non è scientifica. L’inconfutabilità di una teoria non è un pregio, bensì un difetto”: una teoria per essere scientifica deve contenere al suo interno la possibilità di essere confutata
ogni controllo genuino di una teoria è un tentativo di falsificarla, o di confutarla. La controllabilità coincide con la falsificabilità; vi sono tuttavia dei gradi di controllabilità: alcune teorie sono controllabili, o esposte alla confutazione, più di altre; esse, per dire così, corrono rischi maggiori”: la scienza è quella disciplina in cui, coloro che elaborano la teoria cercano di falsificarla (questa concezione verrà negata da Paul Feyerabend, sociologo e filosofo austriaco). Tutti coloro che elaborano teorie non scientifiche, cercano di costruire teorie ad hoc, anche se queste sembrano smentite dai fenomeni.
i dati di conferma non dovrebbero contare se non quando siano il risultato di un controllo genuino della teoria; e ciò significa che quest’ultimo può essere presentato come un tentativo serio, benché fallito, di falsificare la teoria. In simili casi parlo ora di <<dati corroboranti>>”: una teoria può essere corroborata (rafforzata) facendo esperienze che provano a confutarla e invece falliscono.
ad alcune teorie genuinamente controllabili, dopo che si sono rivelate false, continuano ad essere sostenute dai loro fautori – per esempio con l’introduzione, ad hoc, di qualche assunzione ausiliare, o con la reinterpretazione ad hoc della teoria, in modo di sottrarla alla confutazione. Una procedura del genere è sempre possibile, ma essa può salvare la teoria dalla confutazione solo al prezzo di distruggere, o almeno pregiudicare, il suo stato scientifico. Ho descritto in seguito una tale operazione di salvataggio come una <<mossa>> o <<stratagemma convenzionalistico>>”: per le teorie che non sono scientifiche, i loro fautori riformulano ad hoc la teoria per far si che non venga confutata e che sopporti il confronto falsificante con l’esperienza.
Da ciò emerge che l’esperienza sensibile, su cui si basa la scienza, non è giusta, perche le osservazioni sono infinite mentre le teorie no.

L’induttivismo è quel processo scientifico che, attraverso l’osservazione della realtà, permette di formulare teorie universali; per Popper però ciò è errato, in quanto nessun numero di osservazioni può confermare la teoria; le leggi infatti sono sempre particolari, mai universali. Nella verifica della teoria c’è bisogno di infinite osservazioni per dichiarare che sia vera e basta un’unica osservazione che la smentisce per dichiararla falsa.
L’induttivismo quindi non funziona perché si basa su una concezione falsa: priva vi è l’osservazione, dopo la legge. Inoltre vi è la credenza che esistano osservazioni pure non sostenute da teorie precedenti; ciò per Popper è un’illusione: non esistono osservazioni pure, perché tutte sono sostenute da una teoria.
in “scienze e filosofia”, Popper riporta un tentativo di dimostrare ciò.

Scheda: “Scienze e filosofia”, capitolo v
Fa riferimenti al metodo empirico, basato sull’induttivismo, che partendo dall’osservazione arriva alla formulazione di una teoria; le osservazioni, per diventare utili, devono però essere selezionate. Se non si ha una guida che dice cosa osservare (utilità), non è possibile nulla.
Il campo visivo si trasforma a seconda di quello che dobbiamo fare e a seconda dei nostri bisogni: gli oggetti che osserviamo, quindi, cambiano. Per la scienza è la stessa cosa: cambiano gli oggetti a seconda della teoria che vogliamo cercare di confutare.
Il procedimento da seguire non è quindi: osservazione - teoria, ma:
·         teoria – osservazione – nuove ipotesi – nuova teoria: se le ipotesi precedenti vengono smontate
·         teoria – osservazione – teoria: se sussistono le prove iniziali
Questa concezione è ciò che gli permette di mantenere le proposizioni metafisiche come sensate; ad esse attribuisce un valore strumentale, poiché si presentano come narrazioni e aiutano la scienza a formulare nuove teorie: le proposizioni metafisiche hanno buoni racconti sulla realtà, ciò spinge lo scienziato ad elaborare teorie sempre più complesse e rischiose, quindi scientifiche. Bisogna però sottolineare il fatto che metafisico non significa scientifico, ma esiste una demarcazione tra ciò che non è scientifico (meno buono) e ciò che si presenta come scientifico (buono).
L’identificazione di una minore dignità di alcune discipline, ritenute da Popper non scientifiche, porterà i filosofi successivi a definirlo un neopositivista: infatti, egli ritiene più importanti le teorie scientifiche rispetto a quelle non scientifiche; tuttavia anche le teorie scientifiche tendono a verificare se stesse.
Bisogna riconoscere però che la differenza tra i due ambiti è di carattere economico: ad alcuni ambiti vengono dati più fondi e quindi possono approfondire le osservazioni e gli studi sulle teorie formulate. La ragione della loro differenza quindi non è scientifica, ma è una questione di propaganda.